La proposta di legge sul salario minimo ha scatenato un dibattito divisivo, anche nel movimento liberale. Gran parte dei liberali probabilmente condivide le critiche ed i dubbi esposti anche tra le pagine di questo blog. Tuttavia, il fallimento della trickle down economics introdotta dal neoliberismoe l’aumento delle disuguaglianze intergenerazionali sono un invito a riflettere – scevri da pregiudizi – su soluzioni come il salario minimo. Si tratta quindi di affrontare l’argomento sia dal punto di vista del principio (il salario minimo è coerente o no con il pensiero liberale?), sia da quello del merito degli effetti economici (quali possono essere gli impatti sul mercato del lavoro e sulle imprese italiane?).
Un discorso di principio…
“La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dall’emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma […] Libero di diritto, è servo di fatto.”
“Tra una libertà media estesa all’universale, e una libertà sconfinata assicurata ai pochi a spese dei molti, meglio, cento volte meglio, una libertà media. Etica, economia, diritto concordano in questa conclusione.”
Già dalle parole scritte da Carlo Rosselli nell’opera Socialismo liberale, si evince che condizione necessaria – sebbene non sufficiente – affinché un individuo possa ritenersi libero è che esso sia economicamente emancipato. Diversamente, esso è impossibilitato ad esprimersi pienamente secondo la sua attitudine e identità. Il salario minimo, in questo senso, fissa proprio un livello al di sotto del quale la condizione di lavoro delle persone non è in grado di fornire quel “minimo di autonomia economica”. In aggiunta, costituisce anche uno strumento che tutela la “libertà” dei lavoratori di fronte a quei datori di lavoro che, nel loro immobilismo, mantengono in vita le imprese sfruttando le paghe basse. Il salario minimo, quindi, si pone come uno degli strumenti atti a contrastare la “libertà sconfinata assicurata ai pochi a spese dei molti”.
Appurato che il salario minimo sia funzionale al raggiungimento della libertà, ci si chiede se sia giusto che sia proprio lo Stato ad imporre di questo istituto, anziché lasciarne la definizione di tempi e modi al mercato. Anche in questo caso, la risposta ci viene data da un altro pensatore liberale: John Rawls. Nella sua opera A theory of justice, Rawls legittima l’intervento del potere – quindi dello Stato – nella sfera individuale, se esso:
- Garantisce il godimento delle libertà fondamentali da parte di tutti i cittadini
- Limita la presenza delle disuguaglianze a due fattispecie (principio di differenza): a) sono relative ad incarichi e posizioni accessibili a tutti in condizioni di equità, b) generano benefici anche per le persone più svantaggiate all’interno della società.
Il secondo punto della tesi di Rawls si basa in parte sulla tesi negativa secondo cui la distribuzione delle risorse naturali è immeritata. In tale contesto, il salario minimo ricopre proprio il ruolo di eliminare l’ingiustizia data dalla cosiddetta lotteria della nascita, garantendo – per la sua area di competenza – la medesima dotazione di risorse iniziali. La sua imposizione da parte dello Stato è quindi legittimata, seguendo il pensiero di Rawls, perché garantirebbe che coloro che hanno avuto la fortuna di nascere con un potenziale maggiore non si arricchiscano a spese di coloro che sono stati meno fortunati.
Infine, vale la pena sottolineare come questa visione collettiva del benessere era anche comune a Adam Smith, che ne “La ricchezza delle nazioni” scriveva che nessuna società può essere felice se la maggior parte dei suoi membri vive in povertà, ritenendo giusto che i lavoratori avessero diritto a una quota del prodotto delle loro fatiche per vivere decorosamente. In aggiunta, in Teoria dei sentimenti morali, riprendendo Aristotele, Smith scriveva che, se la prosperità di due esseri è da preferire a quella di uno solo, la prosperità di molti deve porsi come un traguardo più elevato.
Il salario minimo, dunque, sembra proprio uno strumento funzionale alla libertà degli individui come descritta dai grandi pensatori liberali. Se quindi dal punto di vista ideale esso trova piena legittimità, lo sarà anche da quello economico?
…una questione di merito
La proposta di legge sul trattamento economico minimo depositata da alcune delle opposizioni è stata sin da subito criticata per l’importo di 9 euro, considerato troppo alto e non in linea con quanto previsto dalla direttiva europea in materia di salario minimo.
Se da un lato è vero che i 9 corrispondano al 75% del reddito mediano, a fronte del 60% indicato come best practice dalla direttiva, essi in realtà sono pari al 50% del reddito medio (in coerenza col secondo parametro indicato dalla direttiva europea) incrementato del 17% per compensare l’effetto dell’inflazione sui redditi più bassi.
Del resto, le aziende stesse stanno approfittando dell’inflazione per mantenere contabilmente alti i loro margini; in altre parole, le aziende hanno elevati margini di profitto non perché hanno aumentato la loro produttività, ma perché hanno mantenuto alti i loro prezzi (e quindi l’inflazione), sebbene non ci siano più determinanti che ne giustifichino un livello così alto. Non si capisce quindi perché i lavoratori non dovrebbero essere tutelati da questi comportamenti.
Alcuni potrebbero ribattere che a quel punto le aziende preferiranno aumentare ulteriormente i prezzi, anziché ridurre i loro margini di profitto. Chi sostiene questa tesi si dimentica però che la domanda di beni e servizi ha anche un livello di tolleranza (c.d. elasticità) di fronte alla variazione dei prezzi e, stando ai dati più recenti, pare che la soglia massima sia stata raggiunta.
Altri ribatteranno che un livello di salario minimo così alto possa incentivare il lavoro nero, o che le aziende siano costrette a licenziare dipendenti se non addirittura a chiudere, specialmente al sud, dove il costo della vita è notoriamente più basso.
Il primo punto è sicuramente vero, soprattutto in un Paese come l’Italia: per questo è importante aumentare gli organici degli uffici che saranno preposti ai controlli. A tal proposito, sarebbe forse stato più utile che la proposta di legge includesse anche lo stanziamento di fondi per condurre più verifiche, anziché fornire sussidi alle aziende che non riescono ad adeguarsi ai 9 euro l’ora.
Le altre due critiche trovano invece poco riscontro nella letteratura economica recente che ha affrontato il tema. L’aumento del salario minimo, nei casi analizzati, non risulta correlato ad alcun impatto sui livelli di occupazione (anche in casi di salario minimo pari all’80% di quello mediano) e, ove presenti, eventuali aumenti dei prezzi sono risultati comunque inferiori rispetto al beneficio netto che il salario minimo ha generato sui lavoratori più poveri.
In uno degli studi più famosi, ad esempio, il salario minimo non è correlato né a riduzione di posti di lavoro, né di orari di lavoro. In aggiunta, la presenza del salario minimo non è correlata né alla chiusura di attività commerciali né alla presenza di barriere all’ingresso sul mercato.
Una misura per la libertà e lo sviluppo economico
A discapito di chi considera il salario minimo una misura più adeguata ad un soviet che ad un’economia di mercato, questo istituto non solo è coerente con alcuni dei principi del mondo liberale dal punto di vista teorico, ma anche a livello pratico i benefici che esso genera sono più che rilevanti rispetto alle eventuali conseguenze negative.
La sua introduzione è quanto mai importante per dare dignità al lavoro di tanti individui, specialmente nelle regioni del sud Italia.
La soglia di 9 euro è solo un punto di partenza che, se implementata la proposta di legge, potrà essere rivista annualmente.
Alcune imprese, sebbene la letteratura economica ne minimizzi la quantità, potrebbero avere difficoltà a mettersi al passo, soprattutto se – impossibilitate nella scorciatoia di scaricare totalmente l’aumento del costo del lavoro sui prezzi – non vorranno comprimere i loro margini. Eppure, il salario minimo rappresenta paradossalmente per loro, e per il sistema economico italiano, un’opportunità per rimettersi in gioco e liberare gli spiriti animali del capitalismo, ricercando innovazione e produttività. In questo modo, l’epoca in cui i lavoratori sussidiavano le cosiddette imprese zombie con i loro stipendi giungerà al termine (forse).