Sostenere la responsabilità sociale d’impresa?

“Il valore per gli azionisti è l’idea più stupida del mondo […] il valore per gli azionisti è un risultato, non una strategia . . . I tuoi principali destinatari sono i tuoi dipendenti, i tuoi clienti ed i tuoi prodotti” (J.Welch , ex CEO di General Electric).

Il culto del valore per l’azionista (il cosiddetto shareholder value)è stato una sorta di mantra che ha ispirato l’azione del top management a partire dagli anni Ottanta del Novecento, sino alla crisi finanziaria degli anni Dieci del secolo corrente. La maggior parte delle decisioni strategiche si concentrava infatti sull’obiettivo a breve termine di premiare gli azionisti aumentando profitti e dividendi ogni trimestre.

Molti liberali hanno assecondato questa prospettiva propria della teoria economica ortodossa, prendendo ispirazione dalla famosa dichiarazione di Friedman: “esiste una e una sola responsabilità sociale per l’impresa, ossia utilizzare le proprie risorse e dedicarsi ad attività miranti ad aumentarne i profitti”.

Dalla crisi finanziaria in poi si è invece affermata con forza l’attenzione verso le tematiche ESG (Environmental, Social e Governance), che trovano la massima espressione proprio nel concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI). Siamo all’avvento del cosiddetto stakeholder value.

In generale, uno stakeholder è una parte che ha un interesse in un’azienda e può influenzare o essere influenzato dall’attività della stessa. Tra gli stakeholder di un’impresa ritroviamo non solo gli azionisti, ma anche i dipendenti, i clienti, i fornitori, i creditori e le comunità con cui un’azienda interagisce nel corso della sua esistenza.

Poiché forniscono il loro contributo alla vita dell’azienda stessa, è ovvio supporre che anche gli stakeholder si aspettino di ricevere un ritorno (lo stakeholder value, appunto), così come gli investitori/proprietari ricevono un ritorno per il capitale investito. Ad esempio:

  • I dipendenti contribuiscono mettendo a disposizione dell’azienda parte del loro tempo, delle loro competenze ed energie. Si aspettano di ricevere in cambio uno stipendio equo, buone condizioni di lavoro e un percorso professionale motivante.
  • I clienti acquistano i prodotti/servizi dell’azienda. Chiedono all’azienda di soddisfare le loro aspettative in termini di qualità, prezzo e innovazione dei prodotti.
  • I fornitori procurano all’azienda le risorse necessarie per il business. In cambio, vogliono chiari standard qualitativi, relazioni stabili e condizioni economiche eque.
  • I creditori finanziano l’azienda. La loro remunerazione consiste nella restituzione del capitale prestato e degli interessi maturati, trasparenza dell’azienda in merito alla propria attività e rischio di continuità aziendale.
  • Le comunità danno all’azienda la forza lavoro necessaria e un tessuto sociale con cui interagire. Si aspettano che l’azienda contribuisca al loro benessere.

Alla luce di ciò, che la responsabilità sociale di un’impresa non debba essere limitata alla sola massimizzazione del valore per i suoi azionisti trova una giustificazione sia sul piano teorico che su quello pratico.

Nel primo caso, un’azienda è di fatto un’organizzazione di beni e persone messe insieme per svolgere un’attività economica. Come gli individui hanno delle responsabilità – anche legali – nei confronti delle parti con cui interagiscono, così è lecito aspettarsi che il medesimo tipo di responsabilità sia anche in capo alle aziende, visto che esse non solo si compongono di individui, ma si relazionano pure con intere comunità.

Questo modo di intendere il ruolo dell’impresa nella società, sebbene sembri frutto dell’agenda ESG in voga negli ultimi anni, è in realtà di gran lunga antecedente al sopracitato aforisma di Friedman. Già l’articolo 41 della nostra Costituzione recita:

L’iniziativa economica privata è liberamente esercitata. Essa non può essere svolta in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare pregiudizio alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. La legge prevede opportuni programmi e controlli affinché l’attività economica pubblica e privata sia orientata e coordinata a fini sociali.

In aggiunta, fin dall’inizio dell’industrializzazione, in Germania le aziende hanno sostenuto lo sviluppo sociale ed economico del paese attraverso: alti salari, istruzione e altre soluzioni di welfare. Questa tendenza si mantenne anche dopo la Seconda guerra mondiale, quando nacque il concetto di Soziale marktwirtschaft (vale a dire l’economia sociale di mercato). Da un lato, questo concetto accetta i principi dell’economia capitalistica; dall’altro, prevede una regolazione che adegui le tendenze capitalistiche al fine di preservare l’equilibrio e la coesione sociale.

Invece dal punto di vista pratico, il focus sullo shareholder value genera il rischio di un eccessivo short termism da parte del top management di un’impresa. Per short termism si intende generalmente la tendenza degli agenti nella catena dell’intermediazione finanziaria a dare peso ai risultati a breve termine a scapito delle opportunità a lungo termine. Ciò ha costi opportunità, ad esempio, in termini di rinuncia ad investimenti e quindi a produzione futura.

Al contrario, il focus sullo stakeholder value aumenta la competitività di un’impresa nel lungo periodo, e quindi la sua capacità di generare valore anche per gli azionisti.

Come affermano Jacobs e Mazzucato:

Le aziende con questo tipo di modello in genere investono di più nell’innovazione rispetto alle loro controparti focalizzate sulla massimizzazione del valore per gli azionisti a breve termine; i loro dirigenti ricevono multipli più piccoli degli stipendi medi dei loro dipendenti; tendono a trattenere per gli investimenti una quota maggiore di guadagni rispetto al pagamento dei dividendi […] E l’evidenza suggerisce che mentre la loro redditività a breve termine può (in alcuni casi) essere inferiore, a lungo termine tendono a generare più forte crescita“.

Inoltre una recente ricerca di Lins, Servaes e Tamayo mostra che in periodi di scarsa fiducia del mercato (come quelli della crisi finanziaria del 2008 e del 2009):

le imprese con un elevato capitale sociale, misurato dall’intensità della RSI, avevano rendimenti azionari che erano da quattro a sette punti percentuali in più rispetto alle imprese con basso capitale sociale. Le imprese ad alta RSI hanno anche registrato una maggiore redditività, crescita e vendite per dipendente rispetto alle imprese a bassa CSR, e hanno accumulato più debito.” Friedman aveva quindi ragione nel dire che l’obiettivo di un’impresa deve essere generare valore per gli azionisti; tuttavia era incompleta l’analisi sul come perseguire questo risultato. I liberali devono essere disposti a sostenere l’impegno sociale delle imprese; non solo perché la responsabilità sociale può considerarsi una componente ontologica dell’impresa, ma anche perché l’evidenza dimostra che sono le aziende con maggiore responsabilità a generare – nel lungo periodo – un solido valore per gli azionisti.

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