Patto di Stabilità: una riforma staccata dalla realtà

I termini debito pubblico e deficit hanno avuto molta risonanza presso il grande pubblico durante la recente crisi economico-finanziaria. Il Patto di Stabilità rappresenta per i Paesi dell’eurozona, e quindi anche per l’Italia, l’insieme di parametri e norme che regolano le politiche di indebitamento. Tuttavia sia le politiche di austerity richieste per far fronte alla crisi dei debiti sovrani degli anni Dieci, sia le più recenti politiche espansive adottate per fronteggiare la recessione causata dal Covid, hanno fatto emergere la necessità di rivedere proprio quell’insieme di regole. Per comprendere però perché l’eurozona abbia deciso di dotarsi di un istituto come il Patto, occorre ripercorrere un po’ di storia.

Pensiero economico e debito pubblico: un rapporto di amore e odio

Il debito pubblico come lo intendiamo oggi fece la sua prima apparizione nel corso XVII secolo. Il pensiero economico si sviluppò proprio all’interno di questo contesto e con esso anche le prime riflessioni sul ruolo del debito pubblico. Se inizialmente l’indebitamento era utilizzato prevalentemente per finanziarie lo sforzo bellico dei vari Paesi, la progressiva espansione dell’organizzazione amministrativa statale (p.e. per la gestione delle colonie) e le prime forme di Stato sociale, comportarono un incremento della spesa statale e di conseguenza un sempre maggior ricorso al debito pubblico. I pensatori classici come Smith e Ricardo, con diverse gradazioni, furono molto critici nei confronti dell’indebitamento statale. Essi ritenevano che tutto quel debito si sarebbe tradotto in un aumento della tassazione sui cittadini, privandoli quindi di risorse da dedicare a consumi o attività imprenditoriali, col risultato di deprimere l’economia del Paese.

Tale impostazione critica rimase predominante sino all’avvento di Keynes e della sua Teoria Generale. L’economista britannico intuì che, in fase di recessione economica, gli effetti depressivi sull’economica potevano essere attenuati aumentando la domanda pubblica di beni e servizi. Secondo Keynes, l’aumento della spesa pubblica (e quindi dell’indebitamento) non avrebbe comportato un aumento della tassazione; il debito si sarebbe ripagato da sé mediante la tassazione corrente grazie ad un effetto moltiplicatore: ad ogni unità di spesa pubblica sarebbe corrisposto un impatto positivo sull’economia più che proporzionale. Lo Stato avrebbe infine incassato più di quanto speso per sostenere l’economia.

Le tesi keynesiane trovarono applicazione nel New Deal di Roosevelt e nei programmi di ricostruzione post Seconda guerra mondiale e avrebbero dominato la scena economica sino agli anni Settanta, quando due crisi petrolifere segnarono l’inizio di un lungo periodo di alta inflazione e stagnazione economica (chiamato stagflazione). Si fecero quindi strada le posizioni neoclassiche di Friedman, il quale proponeva la diminuzione della spesa pubblica (considerata generatrice di inflazione), la riduzione del debito pubblico (i cui tassi alti erano accusati di disincentivare gli investimenti privati), ed un ruolo più attivo delle banche centrali nel controllare il livello di moneta in circolazione. Questi principi avrebbero influenzato proprio la definizione del Patto di Stabilità.

Da Maastricht al Covid: il Patto di Stabilità alla prova dei fatti

Il Trattato di Maastricht stabilì, tra le altre cose, i parametri di convergenza che i Paesi membri dell’UE avrebbero dovuto traguardare per entrare nell’unione monetaria. Tra questi erano presenti i noti rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% ed il rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%; entrambi i parametri sarebbero infine entrati a pieno titolo all’interno del Patto, insieme alla clausola di non bailout.

I criteri arbitrari del Patto trovavano quindi la loro giustificazione economica nelle tesi neoclassiche ancora in voga in quel periodo.  Dal punto di vista politico invece, se da un lato essi erano funzionali ad avere un approccio omogeneo alla spesa pubblica da parte dei vari Paesi, dall’altro volevano disincentivare comportamenti opportunistici. I Paesi più indebitati avrebbero infatti beneficiato dell’appartenenza all’unione monetaria per via dei tassi d’interesse più bassi che avrebbero pagato sul loro debito; era infatti convinzione che, in caso di problemi con le finanze pubbliche, i Paesi più virtuosi sarebbero intervenuti per solidarietà.

Tuttavia, quando il treno della storia incontrò le curve della crisi economico-finanziaria e del Covid, ecco che il Patto mostrò i suoi limiti strutturali.

Nel caso della crisi dei debiti pubblici, si accusò il Patto di considerare dei criteri troppo stringenti per qualificare un debito come sostenibile, generando così la sfiducia dei mercati finanziari nei confronti dei Paesi che più si scostavano dalle soglie previste dall’accordo. In aggiunta, le politiche di austerity richieste dai piani di rientro hanno generato malcontento tra i cittadini, tradottosi in ascese dei movimenti populisti e sovranisti. Col Covid, l’introduzione di strumenti come il fondo SURE ed il programma NextGenerationEU sembrava invece segnare il deciso cambio di passo dell’Unione Europea verso una politica fiscale comune.

In ogni caso, ciò che emerse chiaramente dagli eventi degli ultimi dieci anni era la necessità di una revisione del Patto stesso. In questa legislatura, la Commissione europea si è quindi attivata per definire una riforma del Patto di Stabilità, ma la proposta recentemente licenziata sembra non aver fatto tesoro dell’esperienza accumulata nel corso degli anni.

Un’opportunità mancata

L’attuale proposta di revisione si discosta dalla corrente versione del Patto principalmente per due aspetti: le procedure di rientro dal debito eccessivo e l’applicazione delle sanzioni. Concentrandosi sul primo punto, i Paesi devono oggi formulare dei piani di bilancio annuali per far rientrare il loro debito eccessivo; con la riforma questi piani saranno definiti in ottica pluriennale (da quattro a sette anni), saranno differenziati in base ad di una traiettoria tecnica che terrà conto della sostenibilità del debito di ciascun Paese e ci sarà meno rigore nei tagli relativi agli investimenti (specialmente nelle aree di clima, digitale e difesa). Se da un lato queste novità rispondono parzialmente alle richieste che Draghi e Macron avevano espresso nel 2021, dall’altro sembrano mantenere intatto l’impianto originale del Patto con tutti i suoi limiti.

La riforma non segna nessun passo in avanti verso la fiscalità comune dell’eurozona e non viene nemmeno superato l’approccio quantitativo alla qualificazione del debito pubblico come sostenibile. I parametri del 60% debito-PIL e 3% deficit-PIL non hanno infatti alcuna valenza economica; l’Argentina, ad esempio, andò in difficoltà con un livello di indebitamento pari al 60% del PIL, mentre il Giappone ha anche superato la soglia del 240% senza però generare preoccupazioni sui mercati. In aggiunta, la bontà degli attuali parametri del Patto non trova nemmeno sufficiente evidenza empirica.

Una riforma che avesse voluto rompere col passato e fare tesoro degli eventi accaduti, avrebbe innanzitutto adottato un approccio più qualitativo nella valutazione della sostenibilità del debito pubblico. A tale scopo, i fattori che dovrebbe considerare sarebbero:

  1. La presenza di un alto tasso di crescita dell’economia, poiché aumenta il gettito fiscale e quindi il debito viene servito più facilmente;
  2. L’allocazione del debito principalmente tra gli investitori domestici;
  3. Il livello dei tassi d’interesse (se bassi, il debito è più sostenibile);
  4. L’efficacia con cui il governo raccoglie le tasse (cioè la poca evasione);
  5. Se gli asset su cui il debito viene principalmente sono utili alla crescita economica (infrastrutture, istruzione, sanità, tecnologia e ambiente).

A questo, dovrebbe poi aggiungersi la costituzione di un comitato fiscale altamente professionale e indipendente che valuti l’effettiva sostenibilità del debito pubblico sulla base dei parametri sopra elencati, richieda le necessarie azioni correttive, ma che si astenga dal raccomandare riduzioni di spese o incrementi di tasse, né tantomeno suggerisca l’appropriata combinazione di spese ed entrate.

Il rigore imposto dalla teoria neoclassica è tuttavia ancora forte in seno alle cancellerie europee, e rafforza lo status quo di una vecchia impostazione di politica economica. Non resta che sperare che la prossima curva non sia un tornante.

Bibliografia:

C.L. Holtfrerich, Government debt in economic thought of the long 19th century – Diskussionsbeiträge, No. 2013/4

M. Jacobs and M. Mazzucato (a cura di), Rethinking Capitalism: Economics and Policy for Sustainable and Inclusive Growth – Wiley Blackwell (2016)

M. Mazzucato, The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy – Allen Lane (2018)

J. Tirole, Economics for the Common Good – ed. Inglese Princeton University Press (2017)

N. Wapshott, Keynes o Hayek: Lo scontro che ha definito l’economia moderna – ed. italiana Giangiacomo Feltrinelli Editore (2015)

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