On Revolution – Hannah Arendt

On Revolution è un libro del 1963 della teorica politica Hannah Arendt. Arendt presenta un confronto tra due delle principali rivoluzioni del diciottesimo secolo, la rivoluzione americana e quella francese.

     Dodici anni dopo la pubblicazione del suo The Origins of Totalitarianism (1951), guardando a quelle che considerava rivoluzioni fallite, Hannah Arendt previse con un certo ottimismo che sarebbero emersi dei movimenti nonviolenti in grado di ispirare i governi di tutto il mondo verso atteggiamenti maggiormente democratici. Le sue previsioni si sono rivelate in gran parte vere, poiché i moti del ’68 si sarebbero basati in gran parte sui principi da lei esposti.

     In On Revolution si sostiene che la Rivoluzione francese, sebbene molto studiata e oggetto di numerose emulazioni nel corso dell’Ottocento e del Novecento, in realtà sarebbe stata un disastro. D’altro canto la Rivoluzione americana, meno considerata a livello mondiale ai tempi di Hannah Arendt, sarebbe invece stata un successo. Queste posizioni storiografiche contrastano nettamente con le analisi marxiste e di sinistra. Secondo Hannah Arendt il punto di svolta nella Rivoluzione francese sarebbe arrivato quando i capi rivoluzionari francesi avrebbero abbandonato il loro obiettivo di libertà per andare incontro a un sentimento di compassione per le masse. In America, invece, i Padri Fondatori non avrebbero mai tradito l’obiettivo della constitutio libertatis, cioè di stabilire uno spazio pubblico nel quale la priorità fosse garantire la libertà politica per tutti. Tuttavia, secondo Hannah Arendt lo spirito rivoluzionario dei patrioti americani si sarebbe smarrito negli anni immediatamente successivi all’indipendenza. La studiosa sosteneva che solo una democrazia consiliare diretta avrebbe potuto riconquistare gli americani allo spirito rivoluzionario originario e fondativo della loro patria.

     In un libro precedente, The Human Condition (1958), Hannah Arendt aveva sostenuto l’esistenza di tre stati dell’attività umana: lavoro, opera e azione. Il lavoro è essenzialmente uno stato di sussistenza, ovvero fare ciò che serve per sopravvivere. Si tratta della forma più bassa di attività umana, in quanto tutte le creature viventi ne sono capaci. L’opera sarebbe invece il processo di creazione: per esempio, un pittore può creare una grande opera d’arte, uno scrittore può creare una grande opera di finzione e così via. Per Arendt, l’opera è un’impresa utile. Attraverso le opere le persone possono venir ricordate dagli altri dopo la loro scomparsa: quanto più grande è l’opera, tanto più si viene ricordati, addirittura nell’ordine delle migliaia di anni. Hannah Arendt osserva che le persone leggono ancora l’Iliade e Omero sarà ricordato finché le persone continueranno a raccontare le sue storie. Tuttavia, la Arendt sostiene che l’Iliade è ancora letta solo a causa del suo protagonista: Achille. Per Arendt, Achille incarna l’azione. Solo interagendo con gli altri in una sorta di forum pubblico la tua eredità può essere tramandata di generazione in generazione; solo facendo qualcosa di veramente memorabile una persona può raggiungere l’immortalità.

     La Arendt credeva che i leader della Rivoluzione americana fossero veri “attori” (nel senso arendtiano di autori di azione) e che la Costituzione americana del 1787 avesse creato degli spazi pubblici atti appositamente a favorire l’azione. I leader della Rivoluzione francese, d’altra parte, secondo Hannah Arendt si sarebbero troppo concentrati sulla sussistenza (ciò che la studiosa chiama le “richieste di pane”) invece che sull’azione (sempre in senso arendtiano). La studiosa conclude che, affinché una rivoluzione abbia veramente successo, dovrebbe consentire, se non esigere, che vengano creati spazi pubblici atti a liberare le azioni umane. Le guide della rivoluzione americana avrebbero quindi creato questo spazio pubblico e se ne sarebbero fatti qualcosa agendo al loro interno: ragion per cui i loro nomi saranno ricordati. I leader della Rivoluzione francese avrebbero invece avuto il loro pane ma i loro nomi sarebbero, secondo la studiosa, stati dimenticati.

     Un tema fondamentale, che ha anch’esso un posto di primo piano in On Revolution è il tema della differenza tra guerra e rivoluzione. I due fenomeni sono speso legati e l’uno chiama l’altro. Tuttavia, ci sarebbe una differenza sostanziale: la rivoluzione sarebbe frutto della volontà dei gruppi umani, la guerra sarebbe invece condotta perché avvertita dagli stessi gruppi umani come una necessità ineluttabile. Sarebbe proprio questo a far perdere valore alla Rivoluzione francese rispetto a quella americana secondo Hannah Arendt. La proiezione economica e materialista della Rivoluzione francese recherebbe in sé le tracce di un’idea fatalista, per la quale tutto nella storia si muove secondo una necessità: è questa concezione a influenzare la visione idealista della storia di Hegel, non a caso entusiasta sostenitore della Rivoluzione francese.

     Secondo Hannah Arendt una vera rivoluzione non potrebbe che essere figlia della volontà dei popoli che la fanno di ricamare degli spazi per l’autorealizzazione politica degli individui, fuori da qualunque logica di necessità. In definitiva, per la studiosa nata ad Hannover la rivoluzione di per sé non sarebbe un fenomeno storico delimitato nel tempo e nello spazio. Essa sarebbe invece quella qualità umana in grado di avviare consapevolmente una iniziativa politica.

     Alla luce di questa realizzazione, possiamo porre in quanto giovani e liberali un tema scottante e scomodo, che in molti in Italia hanno faticato a sollevare: non si può essere liberali senza essere contro il conservatorismo. In Italia nel corso degli anni molti conservatori sociali e religiosi si sono messi sotto la bandiera del liberalismo, spingendo contro i cambiamenti della società e portando quindi avanti un discorso che spinge la vita del paese verso un discorso di necessario ritorno identitario all’Italia di epoche precedenti. Si può ben condividere dell’analisi di Hannah Arendt che chi si oppone alla volontà delle forze civiche e progressiste non può ritenersi sicuramente un rivoluzionario e nemmeno un liberale.

     Proprio perché la rivoluzione non è soltanto qualcosa che si sviluppa in un tempo delimitato e i cui effetti vadano banalmente preservati nel tempo dalle istituzioni nate con la suddetta fase rivoluzionaria, è necessario che i liberali democratici riscoprano la loro natura rivoluzionaria. Alla luce dei fallimenti degli ultimi trent’anni di vita politica, abbiamo il dovere, in quanto giovani liberali, di vivere secondo un’ottica di sforzo, lotta e cambiamento perenne e indefesso delle strutture politiche e amministrative, sempre coerentemente con i principi della nostra idea liberale. Abbiamo il dovere di interessarci alla pluralità dei problemi e delle sfaccettature del paese e del continente, senza ritirarci in comfort zone utili solo alla nostra pigrizia nell’affrontare teoricamente e praticamente i problemi sociali, ma inutili al paese e ai fini della nostra credibilità di fronte alla cittadinanza. In questo senso, va riconosciuto ai nostri competitor ideologici sia della destra ultraconservatrice sia soprattutto della sinistra radicale una certa capacità di affascinare i giovani e le parti più insoddisfatte della società proprio attraverso il loro spirito rivoluzionario in senso arendtiano. Questo è un loro indiscutibile merito: noi liberali non possiamo fare altro che prendere esempio e far capire a tutti quanto anche noi, meglio degli altri, possiamo far rivivere all’Italia grandi giorni attraverso una attuazione energica e senza remore delle misure libertarie.

    Alla luce di questo, Hannah Arendt ci stimola ad abbandonare un termine, e dunque una categoria identitaria e interpretativa a cui troppo spesso facciamo riferimento: quella di moderati. Il moderatismo non è mai esistito nel linguaggio politico italiano prima che Berlusconi lo tirasse in ballo e non esiste nel dibattito politico di nessun paese. Il moderatismo è una malattia italiana, che media tra diverse istanze. Ciò non ha nulla a che vedere con il liberalismo e con lo spirito rivoluzionario permanente che gli è proprio: il liberale è netto nel suo pretendere la libertà in tutti gli ambiti e non negozierà mai questa pretesa.

     A suggello di quanto espresso in questo articolo, non possiamo non dimenticare che la tradizione liberale italiana ha tutti gli strumenti per riappropriarsi delle proprie radici rivoluzionarie: non bisognerà risalire alla Rivoluzione napoletana del 1799 e alla sua analisi da parte di Vincenzo Cuoco o alle varie tornate dei moti ottocenteschi. Bensì, basterà ricordare il concetto di rivoluzione liberale elaborato da Piero Gobetti, massacrato di botte dai fascisti e morto pochi mesi dopo a ventiquattro anni di età in esilio in Francia a causa degli stenti e delle ferite procurategli.

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