Nomine nelle partecipate ed esodo RAI: un’analisi a mente fredda

Sono passati ormai due mesi dal rinnovo delle nomine dei consigli di amministrazione di alcune partecipate statali. Ragion per cui è il momento per fare delle riflessioni lucide, più fredde di come avrebbero potuto essere a ridosso degli eventi.

Anzitutto, le partecipate in Italia sono 135 in totale. Esse operano nei settori più diversi: dall’energia ai tabacchi, dalle comunicazioni all’industria tessile. Quando si parla di aziende a partecipazione pubblica, si distingue tra partecipate di primo livello, cioè partecipate dai ministeri (nella stragrande maggioranza dei casi dal ministero dell’economia e delle finanze), partecipate di secondo livello, cioè aziende con partecipate di primo livello come azionisti di maggioranza, e partecipate di terzo livello, cioè aziende partecipate dalla cassa depositi e prestiti, che è a sua volta partecipata per l’82,77% dal ministero dell’economia e delle finanze.

In questo quadro, la tornata di rinnovi delle partecipate di Aprile ha riguardato diciotto partecipate di primo livello, quarantanove di secondo livello e tre di terzo livello. A fine 2023 scadranno e dovranno quindi essere rinnovati per il 2024, gli organi di amministrazione di dieci società direttamente partecipate, cinquantuno società di secondo livello e quattro società di terzo livello. La partita delle nomine è quindi tutt’altro che chiusa e merita una analisi profonda, anche in previsione dei futuri orientamenti politici e macroeconomici del nostro Paese.

Questa analisi non prenderà in considerazione tutti i settanta consigli di amministrazione rinnovati ad Aprile. Non si tenterà nemmeno in questa sede di indagare la situazione dei sessantacinque consigli di amministrazione in scadenza per intuirne la futura composizione. Piuttosto, si cercherà di capire le motivazioni dietro la nomina di alcune figure dirigenziali a capo delle partecipate più grandi e note, per tentare di intuire gli indirizzi futuri nelle nomine. Ci interessano, in quanto associazione politico-culturale, i paradigmi politici e culturali di riferimento nella scelta di queste figure. Infatti, il governo di destra diretto da Giorgia Meloni è uno dei governi più forti e stabili (se non il più forte e stabile) dell’Italia repubblicana ed è sicuramente il governo più ideologizzato dalla fine della Prima Repubblica.

Il governo italiano possiede il 23,59% dell’ENEL e ha concordato con gli altri azionisti la nomina del nuovo assetto dirigenziale. Spicca la nomina di Paolo Scaroni a presidente. Il manager settantasettenne, noto al grande pubblico come dirigente sportivo in Milan e Vicenza, si è formato fino ai cinquant’anni nelle multinazionali delle costruzioni e del vetro. Con l’avvento del secondo governo Berlusconi nel 2002, pur non avendo nessuna esperienza nel settore energetico, Paolo Scaroni viene nominato amministratore delegato dell’ENEL. Nella sua esperienza, con sorpresa di molti, il manager riporta il focus della società sul settore energetico, cedendo asset non strategici come Wind e fa rientrare per la prima volta la grande partecipata italiana nel Dow Jones Sustainability Index, indice borsistico che valuta le performance finanziarie delle compagnie mondiali in base a principi di eccellenza economico-finanziaria e di sostenibilità ambientale. Sarà sempre Silvio Berlusconi a spingere, nel terzo governo da lui presieduto, la nomina di Scaroni ad amministratore delegato dell’altro gigante dell’energia italiana: ENI. In nove anni, Scaroni porta il fatturato dell’ENI da trentanove a sessantuno miliardi di euro, generando nell’insieme trentasei miliardi di utile.

La politica aziendale di Paolo Scaroni è sempre stata improntata a una bassa diversificazione delle attività e a investimenti mirati allo sviluppo tecnico, nella direzione di una transizione ecologica morbida e progressiva, di grande buon senso. Il bis di Paolo Scaroni è stato fortemente voluto da Forza Italia e rappresenterebbe una figura di grande affidamento. Il condizionale è d’obbligo, viste sia la debolezza dei suoi sponsor politici nel governo sia l’età avanzata del manager. La sua nomina sembra infatti ricalcare la continua tendenza di questo Paese a prediligere l’usato garantito e la fiducia personale (Berlusconi e Scaroni sono vicini sin dagli anni ‘80) sul merito, le idee e la capacità di innovare, precipitando la vita imprenditoriale italiana in una pericolosa gerontocrazia.

Poste Italiane, ibrido tra partecipate di primo e secondo livello, è partecipata al 29,26% dal ministero dell’economia e delle finanze e al 35% da cassa depositi e prestiti. Se come amministratore delegato è stato riconfermato Matteo Del Fante, il nuovo presidente è Silvia Rovere. La scelta della manager piemontese va nel senso contrario alla scelta di Scaroni: Silvia Rovere non ha mai lavorato nel settore delle poste, delle comunicazioni e della logistica, essendo stata finora al vertice di iniziative di social housing e finanza immobiliare. Questo tipo di profilo accentuerà la natura, già da diverso tempo, mista delle attività di Poste Italiane, potenziandone l’interesse per il settore immobiliare.

Se la logica della partecipazione statale alle grandi aziende private dovrebbe essere il mantenimento dell’interesse nazionale e popolare, non si capisce perché un governo eletto da oltre la metà degli elettori italiani dovrebbe interessarsi a massimizzare il decentramento delle Poste Italiane dai servizi davvero essenziali e utili ai cittadini, come le consegne della posta, i servizi digitali e i pagamenti. Questo discorso vale ancora di più in un Paese dove i ritardi cronici nelle consegne di pacchi e lettere da un lato e il numero e l’operatività degli uffici postali dall’altro lato lasciano molto a desiderare, spesso non soltanto nelle aree più periferiche del Belpaese.

Spostando la nostra veloce analisi sulle nomine dei vertici ENI, il governo italiano controlla tale azienda direttamente per il 4,34% e per il 25,76% attraverso la mediazione di cassa depositi e prestiti. Qui la nomina del presidente è completamente politica e molto netta e chiara: Giuseppe Zafarana. Generale di lungo corso della guardia di finanza, il piacentino è stato certamente un distinto servitore dello Stato, ricevendo ben quattordici onorificenze tra italiane e straniere: meriti sui teatri di guerra e nella risoluzione di emergenze umanitarie, nella lotta alla criminalità organizzata, ai grandi traffici illegali e nella logistica della protezione civile. Di certo nella sua lunga e appassionante esperienza il già generale Zafarana non è mai stato un capitano d’azienda, né può essere ritenuto un esperto di energia o di finanza. In definitiva, nella nomina di Zafarana a capo dell’ENI si legge a chiare lettere il palese tentativo di Fratelli d’Italia di compattare intorno a sé il bacino elettorale delle forze dell’ordine, storicamente molto vicino alla destra radicale.

Infine, vi è da considerare la nomina di Stefano Pontecorvo alla presidenza di Leonardo: quest’ultima azienda è partecipata per il 30,2% dal ministero dell’economia e delle finanze ed è grande protagonista dei rifornimenti militari italiani all’Ucraina. Grande conoscitore di Pakistan e Russia, dove è stato nostro ambasciatore, Stefano Pontecorvo è molto vicino a un uomo forte di Fratelli d’Italia quale è Guido Crosetto, attuale ministro della difesa e presidente uscente del più grande consorzio interamente privato di produzione di strumenti per la difesa, cioè OSN. Inoltre, Pontecorvo ha fatto l’ambasciatore in Russia tra 1988 e 1992 e poi tra 2007 e 2009, gli anni, cioè, in cui l’Italia è stata vicinissima prima all’URSS riformata di Gorbachev e poi alla Russia di Putin. La sua presidenza in Leonardo sembrerebbe comunicare una volontà di indicare alla Russia che l’inimicizia dell’Italia verso lo Stato invasore abbia una sorta di data di scadenza.

Tirando le somme, si può constatare da questa veloce carrellata che le nomine ai vertici delle principali aziende partecipate non delineano un disegno di intervento economico preciso e coerente, rispondendo piuttosto alle contingenti opportunità politiche che il primo partito del Paese intende raccogliere e sfruttare a proprio favore, allargando il proprio controllo a macchia d’olio su tutta la macchina dello Stato e sugli assi portanti dell’impresa nazionale.

Se tradizionalmente si è sempre ricorso alla cosiddetta lottizzazione, cioè alla divisione delle assegnazioni dei posti nell’industria pubblica ripartite tra i vari partiti dell’emiciclo parlamentare, l’affermazione di un forte partito di destra radicale quale Fratelli d’Italia era il pericolo preventivabile di un sistema allo stesso tempo statalista e partitocratico come quello italiano. Infatti, il sistema italiano della lottizzazione è per sua natura esposto alle forzature di una forza populista al potere come Fratelli d’Italia, peraltro ispirata in tal senso dagli esempi polacchi e ungheresi di feroce acquisizione di spazi di potere in ogni ambito della vita politica, istituzionale ed economica.

Appare chiaro che il sistema migliore per salvaguardare a un tempo solo tanto l’interesse dei cittadini quanto il funzionamento corretto sia della democrazia sia dell’economia italiana è una rinuncia dei governi, e quindi della politica, al controllo diretto dell’economia attraverso le partecipazioni pubbliche alle più grandi aziende del Paese. Un’emancipazione progressiva dell’economia italiana dall’intervento pubblico deve avvenire, sì, gradualmente, ma anche con grande decisione e senza passi indietro, accompagnandosi alla creazione di appositi strumenti contro i trust e i monopoli.

Un esempio ancor più chiaro del pericolo per la tenuta imprenditoriale e democratica del Paese dentro i vecchi schemi della lottizzazione è costituito dai recenti stravolgimenti in casa Rai: alle opposizioni è stato concesso solo un debole controllo su Rai Parlamento e sul solo notiziario: neanche il fu cavaliere Silvio Berlusconi si era mai spinto a tanto nella sua crociata contro i “comunisti” e lo stesso si può dire di governi molto a sinistra come i governi D’Alema o il cosiddetto Governo Giallorosso. La drammatica situazione corrente della Rai, pressoché interamente asservita al governo di Giorgia Meloni, ha spinto voci storiche e dissidenti nei confronti della destra, come Fabio Fazio, Bianca Berlinguer, Maurizio Crozza e soprattutto Lucia Annunziata, ad abbandonare l’azienda televisiva pubblica dopo decenni. Liberi di non condividere certamente i contenuti ideologici di sinistra delle figure appena elencate, ma il vero liberale è colui che farebbe di tutto affinché chi la pensi diversamente abbia lo spazio per esprimere la propria visione delle cose. L’addio di certe figure al servizio pubblico rende l’offerta critica e giornalistica tristemente meno varia e più allineata in favore di un consenso quasi unanime verso il Governo Meloni.

È necessario, anche per la Rai, rispolverare la vecchia ipotesi di privatizzazione, da troppo tempo un tabù assoluto che anche le forze più progressiste hanno avuto paura di affrontare, nei confronti di una azienda che (è bene ricordarlo) ha plagiato le menti degli italiani sin da quando, sotto il fascismo, si chiamava EIAR, per poi divenire il megafono esclusivo della Democrazia Cristiana fino agli anni’70 e diventare, infine, il teatro di battaglia tra le forze politiche fino ai giorni nostri, fungendo ora da utile strumento per le propagande governative ora da macchina demolitrice di carriere politiche e persone.

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