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Notizie dal mondo

L’Argentina al bivio

Gli argentini saranno nuovamente chiamati al voto il 19 novembre per il ballottaggio tra Javier Milei e Sergio Massa. Al termine del primo turno elettorale, Milei e il movimento “La Libertà Avanza” hanno sfiorato il 30% dei voti, staccati di oltre 6 punti dal risultato di Massa, Ministro dell’Economia uscente e peronista con il 36% per la piattaforma “Unione per la Patria”.

Nella sfida finale tra i due, l’ago della bilancia sarà il blocco conservatore del 23% di “Juntos por el Cambio” di Patricia Bullrich, influenzato dall’ex Presidente Macri. A pesare saranno sicuramente le forti tensioni tra anti-peronisti sostenitori di Milei ed elettori moderati o tradizionalisti, estraniati dalla retorica incendiaria del candidato ultra-liberista e dalle sue proposte spesso estreme, come la legalizzazione della vendita di organi.

Il punto chiave della loro scelta però, sarà la situazione drammatica dell’economia argentina, con un’inflazione fuori controllo al 138% su base annua, e la forte ondata anti-governativa, che vede nei peronisti e nei Kirchner-Fernandez la rappresentazione di un sistema corrotto. In un Paese che ha dichiarato 9 volte default nella sua storia, in cui ogni governo ha disfatto le politiche del precedente, tra calcolo elettorale, uso spregiudicato della valuta e fragilità della popolazione più povera, gli elettori hanno avuto il terreno ideale per inseguire l’ennesimo populista, allettati da soluzioni radicali, come porsi sotto l’ombrello della dollarizzazione, e perché rappresenta la loro rabbia: Milei insulta gli avversari come gli argentini vorrebbero fare loro stessi.

Alla facile risposta di Milei, si oppone un muro insormontabile: la realtà. Le riserve in valuta estera della banca centrale argentina (che vorrebbe chiudere) sono ai minimi termini ed il Paese semplicemente non ha abbastanza dollari per convertire i pesos. Questo potrebbe portare ad un ulteriore prosperare del mercato nero dei cambi oppure richiederebbe un influsso di capitale in valuta estera in grado di accettare l’alto rischio già presente. Sarebbe improbabile dato che nessun Paese o investitore estero ha intenzione di farsi carico della crisi argentina e resterebbe nel frattempo l’enorme problema del debito pubblico pregresso: per quanto sulla carta sembri più solido un asset in dollari anziché in pesos, dove trovare i dollari per rimborsarlo? Senza riforme fiscali e sociali mancherebbe comunque la responsabilità del governo argentino verso gli investitori.

Lo stesso vale per la pericolosità delle altre misure: dalla libera diffusione delle armi in un contesto di gravi attriti sociali alle restrizioni all’aborto, cioè soltanto altri fattori scatenanti per mercati clandestini.

Dall’altra parte, resta la certezza degli argentini che, per quanto meno estremo nei modi, il candidato peronista Massa non ha nessuna reale riforma in mano per salvare il Paese dal tracollo. Massa non ha nulla da scambiare con Washington, inteso sia come governo USA sia come FMI, per un salvataggio, anche se rinunciasse all’agognata e prestigiosa adesione alla scatola vuota dei BRICS. In politica estera in effetti, Milei si presenta come un candidato di rottura a suo dire “anti-comunista”, che non vorrebbe fare affari nemmeno col vicino Brasile.

Nonostante questi elementi di facile appeal  elettorale di Milei, la novità del primo turno è stata la rimonta di Massa, che si è attestato come candidato più votato. Tra i fattori chiave, gli argomenti del peronista sul ruolo della rete di protezione sociale messa in campo dal governo nonostante la crisi e sul rischio di un forte aumento dei costi per viaggiare in treno e autobus se avesse perso. Non è stato però un voto trascinato dall’entusiasmo, tanto che l’affluenza è stata del 74%, la più bassa dal ritorno alla democrazia nel 1983.

Questo rigetto verso l’avanzata di Milei ha ora meno spazio per crescere, vista la riluttanza di Bullrich nel sostenere Massa e l’aperto sostegno di Macri verso Milei. Una base consistente di elettori conservatori però non condivide questa linea ed è possibile un calo ulteriore dell’affluenza al ballottaggio: ecco perché in questo scenario, sarebbe molto complicata la vittoria di Massa.

Gianluca Scopetta

Uno sguardo all’Europa

Un governo per la Spagna?

Dopo un primo tentativo fallimentare da parte del leader dei popolari Feijóo di formare un nuovo governo, terminato in una duplice bocciatura da parte del Congresso, l’accordo fra il PSOE di Pedro Sanchez e Sumar (la coalizione delle forze di sinistra) guidata da Yolanda Diaz avvicina la Spagna ad avere un nuovo governo.

L’accordo, annunciato dal Premier uscente e dalla sua Ministra del Lavoro, ufficializza quanto già ipotizzato da Sanchez in campagna elettorale dello scorso luglio. Un patto all’insegna della continuità rispetto al precedente esecutivo ma che ha comunque richiesto diversi mesi di trattative per arrivare a un accordo definitivo. All’interno del patto di governo troviamo, tra gli altri, provvedimenti come l’abbassamento dell’orario lavorativo a parità di stipendio, la revisione al rialzo degli obiettivi climatici, l’aumento dei congedi parentali e un piano straordinario contro la disoccupazione giovanile. Secondo i firmatari questo accordo “consentirà al Paese di continuare a crescere in modo sostenibile e con un mercato del lavoro di qualità, attraverso politiche basate sulla giustizia sociale e climatica e volte all’estensione dei diritti”.

Ma pur rappresentando questo accordo un passo avanti importante per Sanchez, non risolve ancora il principale problema del leader socialista: ottenere una maggioranza in Parlamento. Pallottoliere alla mano Sanchez può contare, assodato l’asse con Sumar, di 152 deputati con la soglia per la maggioranza fissata a 176. Per riuscire nel suo intento quindi il leader del PSOE dovrà trovare un accordo con altre forze minori, tra cui gli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana e di Junts per Catalunya (questi ultimi che però si trovavano all’opposizione del suo ultimo esecutivo). Con entrambe le forze le trattative sono in corso da mesi ma pesa la richiesta da parte di Carles Puigdemont (ex Presidente della Generalitat della Catalogna dal 206 al 2017), di amnistia agli indipendentisti coinvolti nel referendum del 1° ottobre 2017.

Se anche il tentativo di Pedro Sanchez dovesse andare a vuoto sancendo l’impossibilità di fatto di formare un nuovo esecutivo il re non potrà fare altro che sciogliere le Camere e indire nuove elezioni nella speranza che possano chiarire lo scenario politico.

Luca Bellinzona

Le questioni di casa

Verso la legge di bilancio 2024: rimane la Fornero

La prima bozza della legge di Bilancio 2024, che ha cominciato a circolare lo scorso 23 ottobre, è arrivata ieri in Senato con una quindicina di giorni in ritardo rispetto all’approvazione in Consiglio dei Ministri e al contestuale annuncio della premier Giorgia Meloni di aver “approvato la legge di Bilancio in tempo record, in poco più di un’ora” vantato lo scorso 16 ottobre. Dunque l’apparente tranquilla celerità dell’imminente manovra cela a conti fatti una palpabile tensione tra le forze della maggioranza, in particolare tra Lega e Fratelli d’Italia sul fronte pensionistico; nei fatti l’approvazione in Consiglio dei Ministri si è avuta soltanto sui titoli e i massimi sistemi del disegno di legge, ma assai più arduo è stato dettagliare tecnicamente i singoli capitoli della finanziaria.

Il Ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti anche questa volta si è veduto costretto a stringere i cordoni della borsa e a rispettare i diktat finanziari di Commissione europea, mercati e agenzie di rating, deludendo, e non poco, le aspettative di chi del suo stesso partito sperava in qualcosa in più sui requisiti per le uscite anticipate, Opzione donna e adeguamenti alla speranza di vita. Tajani avrebbe voluto maggior impegno sul tema più tradizionalmente caro a Forza Italia in materia previdenziale, le pensioni minime.

In ogni caso, l’aspetto più critico del disegno di legge finanziaria così individuato rimane l’opaca prospettiva di un effettivo taglio delle tasse, mascherato, come spesso accaduto nei governi precedenti, da un generalizzato taglio del cuneo fiscale. In altre parole si tratta anche questa volta di una riduzione della pressione fiscale generale riguardante imposte come l’Irpef sui lavoratori compensata dall’aggravio di misure specifiche e mirate (i cosiddetti “balzelli”) e dall’eliminazione di agevolazioni su consumi (come l’Iva agevolata per i prodotti dell’infanzia). Verranno secondo le previsioni anche sacrificate diverse prestazioni sanitarie e la cedolare secca sugli affitti brevi al 26%.

Ma come se non bastasse nemmeno il promesso taglio del cuneo fiscale di 7 punti fino a 25 mila euro e di 6 fino a 35 mila pare consentirà un effettivo miglioramento della capacità di spesa dei ceti meno abbienti. È previsto che tale riduzione dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori aumenterà in media di circa 100 euro il netto mensile in busta paga. Ma il taglio fiscale avrà un effetto certamente negativo sul prelievo Irpef perché aumenterà l’imponibile fiscale. Questa macroscopica distorsione del risultato finale sui contribuenti era stata rimodulata nelle previsioni originarie in una precedente bozza che prevedeva l’accorpamento dei primi due scaglioni di imponibile (cioè fino a 28 mila euro) sotto l’aliquota 23 %. Ma questa previsione è stata scartata dal governo per mantenere per adesso la promessa della proroga del taglio del cuneo per il 2024 senza modifiche.

Quanto agli aggravi sui singoli consumi aumenteranno di 10-12 centesimi di euro a pacchetto le imposte sulle sigarette da gennaio 2024 e di 30 centesimi a busta la tassa sul tabacco trinciato. Pagheranno di più i proprietari di immobili all’estero per un incremento dallo 0,76 all’1,06 per mille del valore catastale (se in Unione Europea) o del valore di acquisto (fuori Ue).

Rimane dunque una proposta complessivamente incerta sotto diversi punti di vista. Perché oltre alla scarsa contendibilità con le altre forze di maggioranza, l’intero emiciclo parlamentare di Palazzo Madama e Montecitorio si vedrà imbrigliato in margini di manovra molto ridotti. Ma soprattutto, questa rappresentazione consolida la convinzione che le tante promesse, dal rinnovo di Opzione donna a Quota 41, si sono rivelate fumo negli occhi. Ape sociale e opzione donna verranno sostituiti da un unico fondo per la flessibilità in uscita che consentirà di andare in pensione a 63 anni con 36 anni di contributi per i caregiver. Su tal fronte una sola parola: menomale!

Stefano Calla

Notizie da libeRI!

Scuola di formazione: appuntamento a domani, 30 Ottobre, per la lezione di Claudio Velardi a tema “Il ruolo dello spin doctor”

Dalla nostra Redazione: Analisi delle elezioni legislative in Polonia: https://www.liberi-al.it/analisi-delle-elezioni-legislative-in-polonia/

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