Micro-imprese: un caso tutto italiano

L’Italia è a oggi la nazione europea con il minore tasso di crescita della produttività.

Questo quello che dicono i dati Ocse, i quali, se consideriamo il periodo che va dal 1970 al 2020, ci mostrano come l’Italia sia il fanalino di coda d’Europa per quanto riguarda la crescita della produttività, con una media dello 0,4% annuo.

Bisogna quindi domandarsi quali siano i motivi di questa stagnazione della crescita, ma anche quali sono invece i punti di forza dell’economia nostrana.

I motivi della mancata crescita possono essere molteplici, dalla eccessiva burocrazia alla mancata innovazione; ma forse la più grande mancanza italiana è quella della bassa competitività, la quale porta a dei fenomeni di micro-imprenditoria dilagante su tutto il territorio.

Cos’è la microimpresa? Semplificando il tutto possiamo dividere le aziende in 3 categorie: piccole (10-49 occupanti), medie (50-249 occupanti) e grandi imprese (250+ occupanti). A queste va aggiunta una quarta categoria, le microimprese, le quali sono le imprese che non superano i 10 impiegati; immaginatevi un locale della vostra zona: il classico bar di quartiere gestito da due o tre persone, quella è una microimpresa.

La microimpresa in Italia rappresenta il 96% della totalità delle aziende, circa 4 milioni, il doppio rispetto alla Francia, mentre le piccole aziende rappresentano il 3,5%, le medie lo 0,5% e le grandi solamente lo 0,1%,

Come visto in precedenza, le microimprese rappresentano la maggioranza delle aziende attive, per un rapporto 180/1 rispetto alle medie imprese. Di conseguenza ci si aspetterebbe che queste rappresentino anche la maggioranza della produzione del PIL, cosi non è.

Se consideriamo i dati ISTAT del 2019 (non oltre per evitare l’anomalia statistica causata dal covid) il fatturato delle microimprese equivale al 23% del fatturato totale, quello delle PMI (piccole medie imprese) equivale invece al 40%. In media quindi, una microimpresa fattura 160.000€ annui, mentre una media impresa 24.000.000€ e questo rende mediamente le medie imprese 150 più produttive.

Un altro fattore interessante è il tasso di crescita di queste aziende. Le nano imprese italiane hanno un tasso di crescita inferiore alla media europea, d’altro canto, le medie imprese hanno un tasso di crescita maggiore di circa il 20%, rispetto alle controparti francesi e tedesche; questo dimostra come le imprese che hanno successo in Italia sono tendenzialmente più efficienti delle controparti d’oltralpe, cosa che invece non si applica alle nano imprese, essendo quest’ultime non in grado di innovare e competere nella maggioranza dei casi.

Questo per svariati motivi, primo tra tutti il settore di pertinenza. La produttività delle imprese è relativa al settore in cui essa produce, e la le microimprese operano generalmente nel settore dei servizi con basso valore aggiunto. Un altro fattore è la poca competitività: in Italia le microaziende sono tutelate da agevolazioni dirette o indirette, rendendo il mercato tendenzialmente stagnante. Questo punto si collega allo statalismo inefficiente che impone alle imprese una tassazione elevata.

I difensori della microimpresa azzoppante potrebbero ribattere dicendo che la microimpresa rappresenta comunque la più importante catena occupazionale, il che è di fatto vero; ma in media, un lavoratore nella microimpresa è meno produttivo di circa il 16% rispetto a un lavoratore in una piccola impresa, mentre ben dell’87% se paragonato a un lavoratore in una grande impresa.

Bisogna però fare un distinguo, tra imprese che volontariamente rimangono ridotte pur essendo efficienti e in grado di crescere, e quelle che invece non crescono per pura incapacità o possibilità. Quest’ultime sono la maggioranza, e sono anche quelle che più rappresentano l’inefficacia del sistema Italia.

Non ci stupisce sapere che in media la produttività oraria del lavoro è non solo stagnante da decenni, ma anche ben al di sotto di quella di altri Paesi europei come Francia, Inghilterra e Germania.

La produttività per ora lavorata è strettamente collegata al salario. Quando quindi ci si chiede il motivo per cui i salari reali non crescono, la risposta è data dalla bassa produttività. Quando quindi si parla di alzare forzatamente gli stipendi, questa proposta porterebbe a una distorsione di mercato, non essendo le aziende in grado di sostenere certi costi, le quali di conseguenza potrebbero ricorrere al lavoro in nero.

A tal proposito, i dati stimano infatti che l’evasione di autonomi e imprese ha sfiorato il 69% nel 2020. Anche qui, bisogna dividere in due categorie: aziende costrette ad evadere per mancanza di fondi, ed aziende che evadono senza un’effettiva necessità. Concentrandosi sulle prime, una larga parte di queste sono appunto imprese poco redditizie non in grado di competere, ma che, nonostante ciò, riescono a rimanere attive grazie ai contributi statali e all’evasione.

Le microimprese improduttive, quindi, hanno anche dei costi sociali non indifferenti: non solo le aziende pagano poche e basse tasse, ma anche le imposte salariali sono quasi nulle, essendo i salari mediamente esigui; di conseguenza una grande fetta della popolazione paga meno IRPEF di quanta ne serva per sostenere spese come istruzione, sanità e pensioni sociali.

Per concludere, in questo articolo sono stati portati dei fatti, dei dati e delle considerazioni, ma non delle soluzioni. Trovare una soluzione in un articolo di questa durata non sarebbe possibile in alcun modo; il problema della produttività è tanto complesso tanto quanto è legato alla cultura e alle fondamenta dello Stato. Con questa analisi si cerca quindi di portare l’attenzione sul tema, ma anche di offrire dei possibili spunti di riflessione su quali potrebbero essere le soluzioni valide a questa crisi del settore produttivo italiano.

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