Meritocrazia, questa sconosciuta

Merito e meritocrazia sono due parole che in Italia vengono evocate saltuariamente nel dibattito pubblico, presentandole genericamente come la soluzione a tutto o la causa di tutti i mali. Questa volta la polemica gira intorno al nuovo nome del dicastero presieduto da Giuseppe Valditara, cioè il Ministero dell’Istruzione e del Merito. Le voci di protesta vengono soprattutto da sinistra, ed accusano il nuovo Governo Meloni di voler applicare politiche classiste nelle scuole. Il loro presupposto parte dall’idea che non tutti nascono con le stesse condizioni iniziali e che pertanto lo Stato dovrebbe garantire a tutti lo stesso identico punto di partenza. Ponendo che questo ragionamento sia corretto ha delle implicazioni sociali pesantissime.

Prima di sviluppare ulteriormente la questione, è meglio aprire una parentesi: il merito è un concetto appartenente alla cultura liberale ed in quanto tale va difesa, anche rispetto a questo governo che non sembra essere meno statalista di molti altri.

Da sinistra giunge allora un’idea che sembra suggerire che la società del merito lascia indietro chi “non merita”. Secondo questa vulgata, la meritocrazia andrebbe a favorire le classi più agiate e quelli nati in condizioni genericamente più fortunate, che avrebbero già tutti gli strumenti per raggiungere i propri obiettivi più facilmente di altri. Questo modo di ragionare rappresenta un’inversione della realtà dei fatti: la società del merito è proprio quella più aperta alla mobilità sociale. È utopisticamente preferibile porre tutti nelle stesse condizioni di partenza, ma bisogna rendersi conto che non è qualcosa di possibile se non con espropriazioni e redistribuzioni, che ucciderebbero la libertà degli individui. Pertanto è necessario un compromesso. Viviamo fortunatamente in un’epoca storica in cui il cittadino ha a disposizione una serie di servizi garantiti dallo Stato attraverso i propri contributi: è il Welfare State, che permette a tutti gli individui di avere le stesse possibilità di successo. Chiaro è che in una situazione del genere toccherà al singolo valorizzare se stesso, usando gli strumenti e le possibilità che gli vengono offerte. Per cui non è vero che chi “non merita” viene spinto indietro, ma è vero che va avanti chi sa sfruttare al meglio le proprie potenzialità. Avere pari possibilità vuol dire dare spazio alla piena espressione della persona, che potrà seguire le proprie passioni e quindi creare valore aggiunto per sé e per gli altri ed eccellere nel proprio campo di specializzazione. L’individuo è libero di scegliere tra mobilità e staticità, spetta solo a lui decidere se investire su sé stesso o se attendere che qualcuno lo soccorra. L’esperienza del Governo Conte I ci ha mostrato come una parte di italiani preferisca non muoversi ed attendere dall’alto un miglioramento delle proprie condizioni: da una parte il reddito di cittadinanza invita i percettori ad adagiarsi sugli allori, dall’altra la proposta di bloccare ogni forma di immigrazione da parte della Lega impediva anche a personale specializzato straniero di entrare in Italia. Una società che non premia il merito è semplicemente destinata a declinare; non premiare il merito non porta innovazione, la mancanza d’innovazione non produce ricchezza, l’assenza di ricchezza blocca la crescita. Da qui alla cultura del “uno vale uno” il passo è breve: <<questo lo dice lei>> è la frase-simbolo di chi promuove il principio per il quale una persona che ha passato la propria vita a sviluppare competenza ed esperienza ha lo stesso merito di chi si lascia abbindolare dalle varie teorie del complotto.

Dove intervenire allora per promuovere il valore del merito? Essendo un principio di vitale importanza per la crescita del Paese, la meritocrazia andrebbe fatta valere come cardine già in età scolare. In una scuola in cui è richiesta solo la ripetizione mnemonica dei concetti, in cui non si incentiva allo sviluppo del ragionamento e l’insegnamento avviene tramite metodi spesso inadatti, non c’è alcuno spazio per la crescita personale e intellettuale dello studente. Anzi, lì dove conta solo arrivare al massimo del voto con il minimo sforzo, l’alunno è piuttosto invogliato a individuare metodi per frodare il sistema di valutazione, non sentendosi valorizzato e premiato dai suoi sforzi. A lungo andare, le menti più ambiziose saranno costrette a guardare fuori dall’Italia per veder premiati i propri sforzi, perdendo quindi quel capitale umano che tanto serve allo sviluppo ed alla crescita del Paese. In sintesi si può dire che un sistema meritocratico è utile agli stessi giovani, che non saranno costretti ad emigrare per poter lavorare e concretizzare le loro aspettative per il futuro.

Un giovane che si interfaccia al mondo del lavoro, soprattutto a cariche apicali, dovrà affrontare anche un altro problema che è l’antitesi della meritocrazia: il sistema delle raccomandazioni, per il quale non importa quali competenze o esperienza una persona abbia, ma se qualcuno ha una conoscenza diretta con qualcun altro che è già dentro al sistema, il posto gli è riservato.

Si aggiunge poi un fattore squisitamente culturale, per il quale una persona ambiziosa è vista come presuntuosa, superba e volenterosa di scavalcare gli altri alla ricerca di un posto al Sole. Proprio questa repressione del genio finisce poi per bloccare la mobilità sociale che è sempre più preclusa e sostituita da bonus e aiuti statali. Il premio del merito andrebbe pensato come un mercato dei talenti: chi ha un talento e lo valorizza può mettere sul mercato le proprie competenze ed essere “retribuito” per merito. Anziché rispondere con stima, si risponde con un’invidia sicuramente non costruttiva e si passa dall’ammirazione all’invidia sociale.

Cosa fare allora? Iniziare a proporre delle riforme basate sulla meritocrazia sarebbe un ottimo inizio. Valorizzare il merito è uno dei modi che abbiamo per cambiare, seppur in minima parte, il passo sempre più incerto del nostro Paese. E a chi dice il contrario chiedete: qual è l’alternativa al merito?

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