L’inevitabile transizione digitale

Blockchain, open banking, NFT, Web3.0, Metaverso, Robot: sono tutti termini che caratterizzeranno sempre più la nostra quotidianità e che rappresentano semplicemente la punta dell’iceberg di quella che comunemente viene definita transizione digitale. Questi termini, però, molto spesso se da un lato rappresentano il futuro, dall’altro inducono paura, scetticismo, incertezza in particolar modo in quella parte di popolazione meno pronta ad abbracciare a 360 gradi la transizione digitale e il suo livello di innovazione. Oggi il vero digital divide, infatti, non è più tra chi utilizza e chi non utilizza gli stumenti digitali; in fin dei conti il pc e lo smartphone ormai sono utilizzati dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale; bensì il reale digital divide è tra chi è pronto ad accettare e ad accogliere a braccia aperte il nuovo paradigma digitale e chi invece lo respinge con scetticismo in quanto, come tutte le innovazioni, creano incertezza e paura.

Mettiamolo in chiaro: la transizione digitale è un fenomeno inevitabile e ineludibile un po’ come la globalizzazione e proprio come la globalizzazione ci insegna il compito di chi fa politica e dei policy makers è quello, non tanto di frenare il fenomeno, bensì di regolamentarlo: di individuare quindi quelle contromisure a livello globale che consentono di renderla un’opportunità per la maggior parte della popolazione. Con la globalizzazione, purtroppo, tale tentativo non ha portato a grandi risultati con l’effetto politico della nascita del sovranismo di destra e del populismo di sinistra che in fin dei conti sono due facce della stessa medaglia e che hanno come minimo comune denominatore il rifiuto della globalizzazione. Compito dei liberaldemocratici è offrire una nuova visione e dare risposte concrete su come gestire il “lato oscuro” della globalizzazione. Tale similitudine è applicabile molto bene anche alla nuova inevitabile rivoluzione digitale che trasformerà profondamente la società, l’economia e l’industria nei prossimi dieci anni. Dunque, cosa fare? Quali sono le sfide che i policy maker si troveranno ad affrontare e quali possono essere quelle misure necessarie per rendere una vera opportunità il nuovo paradigma digitale?

Innanzitutto, partiamo da cosa non fare: rifiutare tutto ciò che è digitale e innovazione. Il tratto più brutto del nuovo Governo Meloni in Italia è un rifiuto più o meno sibillino di tutto ciò che è innovazione digitale: dalla messa in discussione dello SPID e delle ricette mediche telematiche al famigerato POS. Tali misure, che son state frenate dall’Europa e dal buon senso, celano uno scetticismo su tutto ciò che è innovazione e digitalizzazione, d’altronde il governo non ha neanche mantenuto il Ministero della Transizione Digitale che era stato precedentemente guidato da Colao nel Governo Draghi.

Però attenzione, tale scetticismo è molto condiviso da una parte di società che ha paura di perdere la propria centralità, il proprio ruolo, i propri dati e anche la propria identità, in quanto tale rivoluzione mette in discussione il conosciuto ma soprattutto il ruolo dell’uomo all’interno di un nuovo paradigma di società digitale. Quindi che fare per noi liberaldemocratici su questo tema?

Bisogna lavorare prevalentemente in 3 grandi direzioni:

  • Culturale: bisogna spiegare e soprattutto ascoltare. Bisogna spiegare cosa significano questi termini, quali sono i benefici e i rischi connessi, bisogna far comprendere che sono ineludibili e che se l’Italia resterà indietro ci saranno Paesi che andranno avanti con il conseguente effetto di una perdita di attrattività del nostro paese e di posti di lavoro. Ma soprattutto, bisognerà ascoltare la paura più forte ossia la perdita di centralità dell’uomo a favore delle macchine. Questa è la sfida più grande a cui bisogna dare una risposta. Dare una risposta non sarà semplice e sicuramente bisognerà ammettere che l’uomo perderà parte delle sue prerogative ma ne acquisterà altre e occorrerà spiegare che la macchina affiancherà l’uomo ma non lo sostituirà. Ma l’uomo dovrà reinventarsi e sfruttare la sua intelligenza sociale che la macchina non ha. Ci sono due grandi cose che l’uomo ha e le macchine no: l’empatia e la socialità: bisognerà investire sempre di più su queste due caratteristiche umane!
  • Politiche di istruzione e formazione: strettamente connesso al lato culturale vi sono le politiche di istruzione e formazione da forgiare il prima possibile. Bisognerà investire sulle materie STEM, sulle lingue, sull’informatica ma accanto a queste non perdere la dimensione umanistica delle nostre scuole proprio per sviluppare un senso critico e donare di empatia e socialità le nuove generazioni. Insomma non potrà esserci una scuola e una università senza la conoscenza di cosa sia il metaverso, la blockchain, il saper utilizzare semplicemente anche Excel ma che allo stesso tempo faccia studiare la storia (fino agli anni 2000), la letteratura e le lingue. Occorrerà ridefinire il paradigma di istruzione e formazione e occorrerà investire risorse, tempo e conoscenze.
  • Politiche industriali: accanto alle politiche di istruzione ci sarà bisogno di forti politiche industriali che consentano di accompagnare le aziende sulla frontiera dell’innovazione digitale. Il tentativo fatto con Industria 4.0 deve essere visto come il punto di riferimento e di partenza; però bisognerà incentivare le aziende ad investire nelle nuove tecnologie, nel digitale, nei robot, nel futuro. Il tessuto produttivo italiano fatto di piccole imprese deve essere accompagnato in questa transizione e l’obiettivo deve essere la crescita dimensionale delle aziende e la conseguente internazionalizzazione.

Non c’è bisogno, dunque, di uno Stato Imprenditore, non lo vogliamo; però sarà necessario uno Stato accompagnatore che prepari quella cornice culturale, economica e regolamentare che consenta alle aziende, da un lato di investire, crederci, produrre e crescere e dall’altro alle nuove generazioni di conoscere, di essere pronte a reinventarsi e di avere quella chiave di accesso al futuro.

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