L’importanza del dialogo per l’area liberaldemocratica

Diciamoci una scomoda verità: noi italiani dovremmo essere abituati alle delusioni politiche. Tutti, da destra a sinistra, abbiamo subito almeno una volta uno “smacco” dal partito o dall’orientamento politico di riferimento. E noi liberali, a maggior ragione, siamo vittime di queste delusioni: dalla caduta della Prima Repubblica (e forse già da prima), l’adozione del termine “liberale” è stato utilizzato come specchietto per le allodole per attrarre le fasce di elettorato corrispondenti che, felice di vedere le proprie richieste ascoltate, ha sostenuto i vari progetti politici nella speranza di vedere realizzate quelle manovre tanto auspicate.

Dopo quindi la ventennale “rivoluzione liberale” di Berlusconi ed il tentativo del Partito Democratico di appropriarsi della famiglia liberale in chiave confusamente socialista (eccezion fatta forse per la fase renziana), abbiamo assistito al totale svuotamento del significato di “liberale”, che ha iniziato a significare, per i più, tutto e nulla contemporaneamente.

Da qui nasce il sogno, il desiderio, l’obiettivo di ricostituire un’area liberale affrancata dagli schemi bipolari sempre più polarizzati ed ideologizzati, progetto che negli ultimi anni abbiamo chiamato Terzo Polo. Questo soggetto politico ha rappresentato, col senno di poi, più una chimera che una vera entità a sé stante, seppur in qualche occasione si sia manifestata sui territori con risultati altalenanti.

Per ben due volte, a livello nazionale, ci siamo avvicinati alla realizzazione del progetto: prima con la federazione tra Azione e +Europa, poi con l’alleanza tra Azione ed Italia Viva. In entrambi i casi, la nave è affondata prima di raggiungere il porto dell’area liberaldemocratica unitaria.

Senza fare considerazioni sulle responsabilità delle parti (non è questo il tema né il fine dell’articolo, pensiamo al futuro, ve ne prego!), dopo la rottura è successo ciò che è normale che accadesse, la cosa più politica di tutte: i vari partiti hanno iniziato un processo di differenziazione. Consapevoli dei numerosi punti comuni dei vari programmi, hanno iniziato a spingere sui punti di divergenza cercando di richiamare a sé elettorato con sensibilità differenti e cercando di strapparsi elettori, amministratori e battaglie, lì dove possibile, senza perdere l’occasione di sgambettarsi a turni.

È assolutamente normale che partiti con istanze comuni creino alleanze o inizino a cannibalizzarsi vicendevolmente, e ne troviamo un esempio sia nella coalizione di centrodestra che nel fronte di centrosinistra. Nell’area liberale, finito il tentativo di unione, è iniziato il periodo di distinzione, che dopo una fase più movimentata subito seguente la rottura, ha lasciato spazio ad una sorta di tregua armata. Qual è la conseguenza? La reazione degli elettori e dei simpatizzanti. Le reazioni sono diverse e disparate: chi si è arreso, chi si è avvicinato più ad un partito, chi ha cambiato partito, chi ha gongolato vedendo il progetto fallire, chi si è sfregato le mani vedendo un’occasione per la propria parte, chi invece ha deciso di lottare per il Polo Liberaldemocratico con ancora più determinazione.

Purtroppo, la maggioranza, ha deciso di seguire la strada della differenziazione e di allontanarsi dal partito gemello. Risultato? La polarizzazione interna allo stesso ex-Terzo Polo. Nelle ultime settimane se ne sono viste di ogni. Ciò che è più grave, è vedere come il livello di dibattito interno sia crollato così in fretta. Eravamo abituati a sentire Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia accusarsi a vicenda di essere la causa della deriva comunista o fascista dell’Italia. Prima della rottura, nell’elettorato liberale regnava il disgusto per queste forme di confronto politico. Dopo la rottura, molti liberali si sono abbassati allo stesso livello, chiamando fascisti o comunisti gli ex compagni di lotta.

Mi permetto di far presente come, quest’accusa reciproca di estremismo, non fa altro che il gioco dei due schieramenti principali. E non solo. Queste accuse incrociate sdoganano i concetti stessi di estremismo. Così come è successo per il concetto di liberalismo. Se vogliamo essere davvero un’alternativa ai due blocchi di destra e sinistra, dovremmo essere consapevoli che agire come loro non farà altro che renderci “uno tra tanti”. Dovremmo essere consapevoli che la perdita di significato delle parole è il primo passo per il raggiungimento di orrori già visti. Dovremmo essere consapevoli che la perdita della capacità di dialogare porta, quasi inevitabilmente, all’ideologizzazione dei programmi, perdendo quindi quella caratteristica pragmatica che abbiamo voluto inseguire fin dal primo giorno.

A chi giova questa lotta interna all’area liberale? Forse ad uno dei tre partiti nel breve periodo, ma nel lungo termine, sicuramente a nessuno di noi. Questa rottura va considerata non come la tomba del progetto, ma come uno strappo, un rallentamento. Ciò che importa è continuare a discutere, a confrontarsi, a preparare iniziative congiunte, a guardare come punti di riferimento i programmi comuni ed a gettare ponti tra una sponda e l’altra di ogni partito liberaldemocratico. Militare per il proprio partito, certo, ma consapevoli che ogni mossa deve essere diretta alla costruzione futura di un progetto comune, che è solo rimandato. Usare la propria influenza e l’attivismo per continuare a tenere viva l’idea di un polo unitario. E cercare quante più occasioni di aggregazione possibile.

Non è certo un percorso facile, e forse il primo passo è proprio il più complesso: mettere da parte il proprio orgoglio, la propria appartenenza, la propria identità per qualcosa che non si sa se ci sarà mai. Ma questo progetto è un po’ come l’Effetto Pigmalione: se non ci credi, se non lotti, se non spendi le tue energie, non si realizzerà mai. E la strada per la realizzazione passa anche, e forse soprattutto, dal linguaggio e dal confronto.

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