Se ci fossero ancora dubbi sull’importanza di adottare misure economiche ben argomentate, ma soprattutto con razionali economici diversi dalla lotta ai margini ingiusti, la proposta di tassazione degli extraprofitti bancari li ha dissolti tutti.
Il fatto ed il suo impatto
L’annuncio del Governo si è limitato ad indicare una generica aliquota del 40 per cento sugli extraprofitti derivanti dall’aumento dei tassi di interesse applicati a famiglie e imprese. Nella comunicazione, il Governo ha lesinato qualsiasi dettaglio in merito alle cifre in gioco, ma ha semplicemente aggiunto che gli introiti serviranno a fornire aiuti ai mutui prima casa e al taglio delle tasse.
L’effetto di questa decisione non si è fatto attendere. Il giorno dopo la riunione dei ministri a Palazzo Chigi, i titoli bancari a Piazza Affari hanno reagito male; Intesa Sanpaolo ha registrato -6,84 per cento, Mps -6,39 per cento, Unicredit -5,90 per cento, Finecobank -5,23 per cento, Banca Mediolanum -4,80 per cento, Mediobanca -2,86 per cento e Banca Generali -2,59 per cento.
La situazione ha quindi richiesto delle precisazioni (giunte solo dopo 24 ore) da parte del Ministero dell’economia sull’effettiva portata della tassa, che non dovrà superare lo 0,1 per cento del valore complessivo dell’attivo di ogni banca (una soglia, questa, ben più bassa di quella comunicata inizialmente, cioè il 25 per cento del patrimonio netto della banca). Da qua il netto rimbalzo dei titoli degli istituti, che hanno recuperato parte dei cali del giorno precedente.
Le conseguenze
Come scritto sopra, l’effetto immediato del poco dettagliato annuncio è stato il panico sui mercati. Complessivamente sono andati persi circa 9 miliardi di capitalizzazione sulla sola borsa italiana, ma anche gli altri listini europei sono stati trascinati in basso. Questa riduzione ha sicuramente impattato i risparmiatori che avevano investito in azioni di gruppi bancari. Solo con le successive parole del Ministero dell’economia le acque sui mercati si sono calmate.
Nel lungo periodo sono altri gli effetti a cui potremmo assistere. La nuova tassa colpirà unicamente il margine di interesse delle banche, ovvero la differenza tra interessi attivi (cioè quelli incassati, ad esempio, dai mutui erogati o dai titoli di Stato detenuti in portafoglio) e passivi (cioè quelli pagati, ad esempio, sui depositi, conti correnti o obbligazioni emesse sul mercato), tralasciando tutti i ricavi derivanti dalle commissioni bancarie (es. il costo per fare un bonifico, acquistare una polizza o qualsiasi altro servizio bancario). Le banche potrebbero quindi scaricare sulle commissioni, e infine sui consumatori, il costo della nuova tassa.
In aggiunta, il margine di interesse delle banche può aumentare anche perché, semplicemente, cresce il totale dei mutui a prezzi (tassi) invariati. In un mercato che si sta proiettando verso una contrazione della domanda di prestiti, la tassa disincentiverebbe ulteriormente le banche ad erogare ulteriori mutui ai consumatori.
Occorre inoltre tenere a mente che le banche italiane sono tra le principali acquirenti dei titoli di Stato italiani. Gli interessi che esse incassano alimentano proprio la voce del margine di interesse. Il rischio è che quindi gli istituti di credito smobilizzino parte dei loro investimenti o che ne comprino in quantità inferiore, il che non è auspicabile per un paese fortemente indebitato come il nostro.
A queste osservazioni si aggiungono quelle fornite dalla Banca Centrale Europea, in particolare in merito al conseguente indebolimento della posizione patrimoniale degli istituti di credito, perché, tra l’altro, verrebbero di risorse da destinare agli accontamenti sui crediti a rischio.
Eppure il danno più grosso che la proposta ha comportato è all’immagine del nostro Paese verso gli investitori internazionali. In un momento storico in cui è essenziale attirare capitali e know-how straniero per affrontare la transizione ambientale e digitale, è stata data l’idea di un Paese inaffidabile e imprevedibile nei confronti delle attività imprenditoriali e preassoppochista nella definizione delle misure economiche. Il rischio è, come commentato dalla stessa BCE, che gli investitori si astengano dall’investire o chiedano rendimenti più alti.
Quali alternative?
In tutta questa vicenda c’è però da riconoscere un dato oggettivo. Le banche hanno effettivamente scaricato l’aumento dei tassi di interesse sulla clientela, senza però adeguare i tassi che invece dovrebbe corrispondere ai loro clienti, generando quindi gli alti margini che il governo intende aggredire.

(fonte: IlPost)
Tuttavia, come riferisce IlPost:
“le banche venivano da un periodo di scarsissima redditività, visto che per anni i tassi sui prestiti sono stati vicini a zero e quelli sui depositi addirittura negativi: in quel caso le banche hanno tenuto i tassi di interesse sui prestiti piuttosto bassi e in linea con la politica monetaria, ma non hanno mai portato i tassi sui conti correnti dei clienti in negativo, assorbendo quindi la differenza”.
Se proprio si volevano colpire le banche in questa fase (temporanea) di rialzo dei tassi, il Governo avrebbe potuto innanzitutto concentrarsi sugli utili complessivi, anziché su quelli afferenti ad una specifica attività bancaria (tra l’altro proprio l’attività caratteristica delle banche) generando potenti distorsioni di mercato.
Si poteva agire sulle banche che fanno un uso eccessivo delle garanzie pubbliche sui finanziamenti (coprendo così le loro inefficienze interne nel misurare il rischio di default delle controparti e scaricando sui contribuenti tutte le perdite), chiedendo loro di pagare una tassa a fronte del servizio di fornitura delle garanzie stesse.
Un’altra opzione poteva essere vietare, come già fatto durante la pandemia, la distribuzione di dividendi a fronte di un rafforzamento del patrimonio di vigilanza. O ancora tassare eventuali utili derivanti dall’utilizzo di derivati di copertura o su tassi di cambio.
Infine, se si ritiene che le banche stiano abusando della loro posizione, non sarebbe forse una soluzione migliore avviare un’indagine dell’antitrust o incrementare la concorrenza nel settore?
Un primo esempio di Melonomics?
L’inziale comunicazione in pompa magna e la successiva retromarcia parziale (viste le reazioni dei mercati e degli investitori) hanno smascherato la natura populista e propagandistica di questa soluzione. Tra ricorsi alle corti costituzionali e stime errate, le tassazioni degli extraprofitti difficilmente hanno raggiunto i fini redistributivi che si erano poste.
Ad aggravare la situazione c’è anche il fatto che gli extraprofitti registrati dalle banche non sono un caso eccezionale, ma sono connaturati ai meccanismi della finanza. Le persone che hanno stipulato i mutui a tasso variabile dovevano essere consapevoli del rischio a cui si esponevano. Sfortunatamente, l’alto analfabetismo finanziario del nostro Paese, unito ad una generale disaffezione verso le banche, crea un sostrato in cui simili proposte attecchiscono bene.
Se il depotenziamento della proposta è, da un punto di vista economico e finanziario, un fattore positivo, resta però un tema. In momenti di difficoltà a reperire risorse finanziarie, il Governo ha mostrato di non avere remore ad aggredire subito gli utili delle imprese secondo criteri totalmente arbitrari. Il timore, soprattutto per gli investitori, è che un episodio simile possa nuovamente accadere in futuro.
Se questo è un primo esempio di Melonomics, o un semplice riflesso pavloviano di un governo in difficoltà con la prossima finanziaria, è ancora presto per saperlo. Per il momento non si può che fare tesoro delle parole del professor Tria in merito all’intera vicenda: “La destra liberale è un oggetto sconosciuto così come la sinistra di mercato. A volte si crede che l’economia sia un gioco. Non lo è”