Il primo dicembre 2022, sul grattacielo più alto di Guangzhou, è stato affisso il messaggio “Ogni persona è individualmente il primo responsabile della propria salute“, segno della fine della politica “Zero Covid” in Cina. Dopo tre anni in cui il partito comunista cinese ha obbligato i cittadini ad accettare lockdown irrazionali e interferito nella loro intimità, tracciandoli e isolandoli dal mondo nel nome della lotta contro il Covid, il Ministero della Salute ha finalmente aperto il paese e eliminato ogni restrizione sanitaria. Il Covid, un tempo descritto come un “demone”, ora è solo un’influenza: niente più QR code, tamponi obbligatori, quarantene infinite. Nel frattempo, l’epidemia sta esplodendo nel paese e minaccia di diffondersi al di là delle frontiere. Il regime si trova in difficoltà e rifiuta di condividere i propri dati. In questo caos generale, è lecito chiedersi se il fallimento della politica “Zero Covid” potrebbe destabilizzare il sistema autoritario cinese.
LE CAUSE DEL CAMBIO DI ROTTA: La fine della politica “Zero Covid” si può considerare a tutti gli effetti un fallimento del partito comunista. A partire dal 26 novembre, delle proteste sono scoppiate in diverse città, prendendo alla sprovvista il regime, che non vedeva tali mobilitazioni dal 1989. L’elemento scatenante è stato un incendio nella regione dello Xinjiang che ha costato la vita a dieci persone. Le porte dell’edificio in fiamme erano state sbarrate per impedire ai residenti di lasciare le proprie case dopo un contagio nel vicinato. Di conseguenza, le difficoltà dei soccorsi ad entrare nell’edificio sono state fatali. La popolazione, scesa in strada con fiori e candele, ha chiesto la fine delle restrizioni sanitarie e ha denunciato l’assenza di trasparenza e la censura imposta ai cittadini. Se a metà novembre una serie di editoriali del Quotidiano del Popolo chiedeva ancora di continuare “con determinazione” la stessa strada, il primo dicembre la revoca delle restrizioni non si è fatta attendere, nonostante l’inverno, periodo favorevole alle ondate Covid, e il numero elevato dei contagi. Di conseguenza, queste mobilitazioni, seppur represse rapidamente dal partito, hanno giocato un ruolo fondamentale nel cambio di strategia.
La seconda ragione del fallimento della politica “Zero Covid” è da imputare a suoi costi insostenibili. Nel 2022 il tasso di crescita dell’economia cinese è stato ridotto di 2.2 punti percentuali, facendo perdere alla Cina 384 miliardi di dollari di PIL e contribuendo al rallentamento della crescita mondiale. Se le questioni economiche hanno influito sul cambio di rotta del partito comunista, anche il capitale umano necessario al rispetto delle regole ha cominciato a venire meno nel 2022. Secondo uno studio condotto dalla Shanghai’s Fudan University, i da bai o “grandi bianchi”, per i loro dispositivi di protezione individuale, hanno cominciato a soffrire di ansia e stress. Intermediari tra le esigenze ambiziose del partito e il malcontento della popolazione, questi funzionari, senza alcuna autorità, si sono ritrovati a difendere la strategia sanitaria sul terreno scontrandosi con il bisogno di libertà personale dei cittadini.
L’EREDITÀ DELLA PANDEMIA: La Cina ha fornito nel 2020 il primo modello di risposta alla pandemia, un modello esplicitamente illiberale e autocratico. Sanità pubblica, sorveglianza e potere della polizia di Stato sono stati i pilastri della strategia cinese. L’utilizzo dei dati personali su larga scala ha garantito il controllo dei focolai Covid fin dai primi giorni, permettendo di calcolare con accuratezza il livello di rischio di ogni individuo in base alla sua esposizione. Il partito ha quindi investito nello sviluppo di un sistema di raccolta e centralizzazione dei dati su una piattaforma nazionale unificata. L’utilizzo di questi dati può contribuire a plasmare, indirizzare e controllare la società cinese. La mancanza di trasparenza nella raccolta e la conservazione dei dati non scongiura inoltre il rischio di potenziali abusi, i quali non possono che rafforzare il potere di Xi Jinping negli anni a venire.
Durante questi tre anni, il partito comunista cinese ha utilizzato un linguaggio militare per spaventare, più del necessario, la popolazione e indurla così ad accettare le restrizioni: l’epidemia sarebbe stata “annientata”, la “guerra” contro il Covid vinta, la nazione “salvata”. La propaganda ultranazionalista è riuscita ad alimentare per tre anni l’immagine di una Cina vincente opposta a un Occidente vinto dal Covid. Tuttavia, questa propaganda non è stata che del fumo negli occhi, e lo stiamo vedendo in questi giorni. Gli ospedali sono sovraccarichi, i farmaci introvabili e i crematori registrano un afflusso insolitamente alto di corpi. Soprattutto le aree rurali, dove mancano le infrastrutture necessarie e la popolazione è particolarmente anziana, potrebbero pagare il prezzo dell’apertura.
CONCLUSIONE: La Cina non è il solo paese ad aver attuato delle strategie anti Covid drastiche: Taiwan, la Nuova Zelanda e l’Australia, per esempio, hanno seguito una linea dura durante i primi mesi della pandemia. Tuttavia, con l’arrivo della variante Omicron, più contagiosa e meno letale, tutti hanno abbandonato la rigidità dello “Zero Covid”. Ciò che differenzia questi paesi dalla Cina sono i media indipendenti e un’opinione pubblica libera che hanno agito come veri contropoteri, richiedendo risposte proporzionate alla gravità delle ondate, limitate nel tempo e soggette a processi democratici di revisione. Non possiamo dire oggi se il fallimento della politica “Zero Covid” indebolirà il sistema autoritario cinese. La popolazione ha reagito, ma i motivi della resa del partito comunista non si limitano alle manifestazioni represse in pochi giorni. Considerata la macchina propagandistica che ha funzionato per più di due anni e la sorveglianza rinforzata grazie alla gestione dei dati personali, il partito avrà nelle sue mani le armi necessarie per offuscare le critiche e gestire la situazione durante questo momento di transizione. Se è lecito sperare, dal nostro punto di vista, un’apertura democratica della Cina in un futuro prossimo, per ora nulla la preannuncia.