I populisti di sinistra filoputiniani battono i liberali in Slovacchia

Quasi otto mesi fa ci siamo trovati a commentare entusiasticamente la vittoria alle elezioni presidenziali ceche di Petr Pavel, ex generale in pensione e volitivo atlantista ed europeista, contro il populista di destra filoputiniano Andrej Babiš. A ritroso, possiamo dire che forse chi scrive fu troppo ottimista, sottovalutando l’onda lunga del populismo, fatto di un uso al contempo patologico e abilissimo della menzogna, e la profondità della paura che ancora il fantasma imperiale prima zarista e poi sovietico incute nelle popolazioni esteuropee. La paura può scuotere e volgere i popoli alla resistenza e all’orgoglio, come è stato per i cechi otto mesi fa, quando le armate putiniane sembravano molto più forti di quanto si siano invece dimostrate e la tentazione di trattare con il boia dell’Ucraina pareva un’opzione in più di qualche cancelleria europea. Tuttavia, la paura può anche schiacciare e inebetire uomini e popoli, facendoli sprofondare nella ricerca del compromesso, della soluzione più facile e più conveniente sul breve periodo. Questo è il caso della Slovacchia alle ultime elezioni legislative. 

Similmente alla Repubblica Ceca, la Slovacchia ha un sistema istituzionale che si regge sul modello semipresidenziale del precedente stato cecoslovacco. Quindi entrambi i paesi eleggono ciascuna il proprio presidente della repubblica a suffragio universale diretto ogni sette anni e, separatamente, con cadenza quadriennale e sistema proporzionale, il parlamento. Il partito vincitore convenzionalmente esprime il capo di governo, che ha mandato dal presidente della repubblica di costruire la maggioranza qualora manchi la maggioranza assoluta dei voti.  

Nel 2019, nello stupore generale, viene eletta a presidente della repubblica un’esponente democratica liberale, Zuzana Čaputová, in un paese solitamente dominato da cattolici e socialdemocratici. Molti analisti ritennero la vittoria dell’europeista Čaputová una mazzata di non poco rilievo allo spirito conservatore ed euroscettico del gruppo di Visegrád, se non addirittura la sua fine. La pandemia da Covid 19 prima, la crisi economica poi e la guerra ucraina infine facevano temere una nuova inversione di tendenza nel fragile contesto esteuropeo nuovamente a favore dei populismi. Gli smottamenti interni al governo polacco, i movimenti europeisti di massa in Romania, il sempre maggiore isolamento dell’Ungheria orbaniana da parte dei vicini, la disfatta dei filoputiniani in Lettonia e, infine, la già menzionata sconfitta di Babiš alle presidenziali ceche hanno dimostrato un successo e una resilienza del processo di integrazione europea e di radicamento dei valori europei in tutta l’area orientale dell’UE inattesa per gli stessi osservatori occidentali. 

Negli ultimi anni, la Slovacchia ha beneficiato del governo del partito della presidente della repubblica, Slovacchia Progressista (Progresivné Slovensko), capitanato dal premier uscente Michal Šimečka e che in Europa si colloca nell’ALDE. Le sue politiche sono state pro-LGBT, ambientaliste e soprattutto liberiste in materia economica e di bilancio, oltre che di dialogo e cooperazione con i vicini, soprattutto con l’Ungheria, i cui rapporti con la nazione slovacca, di cui storicamente è stata l’oppressore, non sono mai stata ottimi (parlando eufemisticamente). Questo approccio ai compiti di governo pratico, non ideologico, aperto e agli antipodi delle soluzioni populiste ha avuto l’effetto di far coagulare intorno a un’unica coalizione più populisti, sia di destra che di sinistra. A spuntarla è stato quello con più esperienza governativa, cioè il già tre volte primo ministro Robert Fico. Populista di sinistra, Fico è stato a capo del governo del suo paese tra 2006 e 2010 e tra 2012 e 2018 e alle elezioni del 30 settembre il suo partito si è classificato primo con il 23% dei voti. 

Il terzo mandato, partito nel 2016, fu interrotto a metà per l’omicidio di stampo mafioso del giornalista Jan Kuciák, che stava facendo un’inchiesta sui legami tra il partito di Fico, Direzione –Socialdemocrazia (Smer – sociálna demokracia), e la ‘Ndrangheta. Fico, dimissionario, fu sostituito dal suo nemico interno al partito, Peter Pellegrini (di origini italiane), fondatore nel 2020 del partito scissionista Voce-Socialdemocrazia (Hlas-sociálna demokracia), fortemente europeista e decisamente più allineato all’orientamento del Partito Socialista Europeo di quanto non sia Fico. Entrambi i partiti socialdemocratici slovacchi fanno infatti parte del PSE, che è sempre stato imbarazzato dalle posizioni populiste di sinistra di Fico. Fortemente avverso a qualunque discussione sulla redistribuzione dei migranti, convintamente islamofobo e avverso alle multinazionali operanti nel paese, il primo ministro Fico non ha mai nascosto la grande simpatia per Putin, Medvedev e il loro sistema di potere.  

La vicinanza di molte posizioni di Fico all’estrema destra lo ha sempre premiato nella cooperazione con le forze ultraconservatrici e nazionaliste del suo paese, tanto negli anni dei suoi governi quanto ora che si deve formare il suo nuovo, quarto governo. La vittoria del partito Smer è stata salutata dal presidente ungherese Viktor Orban con un Tweet di grande giubilo: la linea con cui Robert Fico ha vinto è stata infatti quella della sospensione immediata degli aiuti militari a Kiev, condivisa con il padre-padrone dell’Ungheria e che entrambi intendono portare in Europa in contrapposizione alla linea Von der Leyen sull’Ucraina. Secondo Fico, che ha potuto beneficiare di una sensibile campagna di disinformazione filorussa riguardo i dati dei costi della guerra per gli slovacchi, La Slovacchia avrebbe sopportato un carico di profughi ucraini e un aumento dei prezzi dei carburanti del tutto insostenibile per una piccola repubblica di cinque milioni di abitanti senza sbocchi sul mare e completamente dipendente dai rifornimenti di gas e petrolio russi. Come l’Ungheria, si potrebbe dire. Come anche la Repubblica Ceca, diciamo noi. 

Il mandato di formare il governo per Robert Fico non è molto semplice: il rivale Pellegrini ha posto un veto assoluto sull’estrema destra. Veto sostanzialmente irricevibile per Fico e che vede il leader di Voce-Socialdemocrazia caldamente avvicinato dai cattolici moderati europeisti per costituire un governo di minoranza. Intanto, il partito di governo uscente liberale e progressista osserva a distanza, con il suo 17% dei voti molto utile per formare un tale governo di minoranza. 

Altre sfide attendono la politica esteuropea nell’immediato, con le elezioni in Polonia tra due settimane e l’oceanica manifestazione a Varsavia delle forze di opposizione del 1 ottobre, dove una folla di donne e giovani sventolava i vessilli dell’Europa e della comunità LGBTQ+. 

Al di là dei risultati elettorali, delle specificità dei vari casi nazionali e dei vantaggi, delle sconfitte e dei facili entusiasmi del momento, una cosa è chiara: la problematica realtà politica della parte orientale dell’Unione Europea dimostra che l’invasione ucraina non ha dissipato le tentazioni antiliberali, paternaliste, nazionaliste e xenofobe dei demagoghi filoputiniani di destra e sinistra. Quella tra le forze democratiche, di ispirazione sia sociale che liberale, da un lato e i populismi dall’altro lato è una guerra di logoramento, destinata a durare e nella quale noi giovani liberali europei dobbiamo ritagliarci un ruolo da protagonisti.  

/ 5
Grazie per aver votato!