Quando nel 1976 l’immenso Milton Friedman vinceva il premio Nobel per l’Economia, il mondo era davvero agli albori di una profonda trasformazione. Probabilmente le sue idee, assieme a quelle dell’altro celeberrimo Nobel Friedrich von Hayek, sono quelle che hanno maggiormente ispirato le rivoluzioni Liberal-Conservatrici degli anni ’80 di Margaret Thatcher e Ronald Reagan: una forte iniezione di libertà economica in un contesto di crescente espansione ed apertura dei mercati, dei sistemi finanziari e del commercio internazionale. Nel 1987, il film “Wall Street” sbancava i botteghini con la parabola dell’avido squalo della Finanza Gordon Gekko – interpretato da un inarrivabile Michael Douglas – e del suo discepolo Bud Fox. Diciamocelo: un altro mondo.
Tra le teorie di Friedman ce n’è stata una che ha suscitato acceso dibattito: la cd. shareholder view. Milton sosteneva: “esiste una e una sola responsabilità sociale per l’impresa, ossia utilizzare le proprie risorse e dedicarsi ad attività miranti ad aumentarne i profitti”, nel rispetto ovviamente delle regole del gioco. Inoltre, esprimeva un giudizio particolarmente severo sulla responsabilità sociale d’impresa considerandola addirittura “una dottrina fondamentalmente sovversiva”.
Nel 2023, l’agendaESG (Environment Social Governance) è indiscutibilmente sul tavolo di qualsiasi CEO nel mondo. Come emerso dall’ultimo World Economic Forum di Davos, non esiste solo la arcinota lotta al Climate Change e la spinta alla Decarbonizzazione, ma anche una crescente attenzione a topic che richiedono uno sguardo più lungo della mera massimizzazione del profitto di breve periodo: ad esempio, lo sviluppo di mercati del lavoro più sani ed inclusivi, la creazione di valore tangibile anche per le comunità locali e le catene di fornitura, l’incremento della collaborazione con il settore pubblico per ridurre le disuguaglianze e creare città più accessibili.
Insomma, basta guardarsi intorno per rendersi conto che la teoria di Friedman non è stata seguita alla lettera. Ma questa non è solo una conseguenza delle recenti evidenze scientifiche sugli effetti dei cambiamenti climatici, dell’indirizzo ESG nelle strategie di investimento di diversi fondi di asset management globali o della crescente pressione governativa e regolamentare. Esiste anche una spinta dal basso – portata alla luce da diversi sondaggi consultabili sul web – che arriva da tanti cittadini e consumatori che non solo preferiscono rivolgersi a brand più sostenibili pagando prezzi più alti, ma che chiedono anche alle imprese di assumere un ruolo più ampio. Insomma, qui non è solo una questione di Greta e dei giovani di Fridays For Future. C’è molto di più e, probabilmente, anche un profondo cambiamento culturale in corso.
I liberali, quindi, possono davvero trincerarsi nell’ortodossia del pensiero classico? Probabilmente no e ripetere narrazioni non attuali rischia di essere un errore fatale. Ma occhio anche a non andare a finire in campi estranei, sarebbe un secondo errore fatale. Friedman non sbagliava nel metterci in guardia dal rischio di “politicizzazione” dei consigli di amministrazione, dal pericolo che i manager possano imboccare strade diverse da quelle di azionisti o investitori ai quali devono rendere conto, dalla possibilità che si distrugga valore per inseguire scopi lodevoli ma incoerenti con la mission delle imprese. Non da ultimo, dall’evitare che transizioni normative troppo repentine siano pagate a caro prezzo dai cittadini (ma questo è un altro film che richiede un altro dibattito).
Insomma, una nuova narrazione per i liberali potrebbe essere quella di coniugare la massimizzazione del profitto e la magnifica spinta creatrice del capitalismo con la capacità di generare benefici sociali di più ampia portata? Benefici che lo Stato, per deficit strutturali e/o fisiologica instabilità politica, non è più in grado di assicurare. In sostanza, provare ad aggiornare Milton Friedman, non a superarlo. Ragioniamoci a mente aperta.