Hannah Arendt è una figura centrale della cultura liberale democratica dell’ultimo secolo, rappresentando per molti aspetti una figura eccezionale e singolare nell’ambito del pensiero liberale. Filosofa, storica, politologa, sociologa, attivista politica e giornalista sono alcuni dei modi in cui viene definita, ma ella si è sempre ritenuta teorica politica, in quanto per lei il filosofo ragionava con una capacità di astrazione e di intuizione che non sentiva le appartenesse.
Nacque a Hannover il 14 ottobre 1906 e crebbe soprattutto a Königsberg, l’odierna Kaliningrad russa, allora parte della Prussia orientale e dunque città tedesca. I genitori erano ebrei agiati, originari dell’impero zarista, ma di forte sentimento e senso di appartenenza tedesco.
Iniziò a studiare filosofia all’università di Marburgo. Qui ebbe una relazione sentimentale con il suo docente e mentore, Martin Heidegger, per molti il più illustre intellettuale di tutto il XX secolo. La relazione durò fino al 1928, anno in cui Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con una tesi sul concetto di amore in Sant’Agostino di Ippona, scritta sotto la guida dell’altro grande filosofo esistenzialista tedesco insieme a Heidegger, cioè Karl Jaspers. Intanto la studiosa aveva proseguito i suoi studi anche all’università di Friburgo.
L’avvento del nazionalsocialismo al potere in Germania nel 1933 e l’adesione di Martin Heidegger, rettore dell’università di Friburgo, all’implementazione dell’educazione nazista, imposero lo stesso anno ad Hannah Arendt di trasferirsi a Parigi. Nella seconda metà degli anni ’30, la teorica politica tedesca fu molto attiva nel movimento sionista, collaborando all’emigrazione dalla Francia verso la Palestina di altri rifugiati ebrei provenienti, come lei, dalla Germania nazista.
Nel 1940 sposò il docente di filosofia Heinrich Blücher, con il quale, dopo l’invasione nazista della Francia nel 1941, si trasferì negli Stati Uniti, precisamente a New York. Oltreoceano Hannah Arendt non solo proseguì l’impegno politico e umanitario al fianco di organizzazioni sioniste come la Conference of Jewish Relations, di cui fu direttrice delle ricerche tra 1944 e 1946, la casa editrice sionista Schocken Books, di cui fu editore capo tra 1946 e 1948, e la Jewish Cultural Reconstruction, di cui fu direttrice esecutiva tra 1949 e 1952: con quest’ultima organizzazione lavorò per recuperare gli scritti ebraici dispersi dalla sciagura nazista. Negli Stati Uniti d’America Hannah Arendt proseguì quindi anche la carriera accademica nel campo delle scienze sociali: insegnò prima a Berkeley, poi a Princeton e quindi tra 1963 e 1967 fu docente di Teoria Politica presso l’Università di Chicago, per poi trascorrere i suoi ultimi anni alla New School for Social Research di New York.
Nel 1950 la studiosa riallacciò i rapporti con Martin Heidegger, che in vari articoli e lezioni difese, affermando che l’adesione al nazismo sarebbe stata solo un errore del grande studioso. Gli studiosi hanno rilevato come questo atteggiamento da parte della Arendt fosse in piena contraddizione con la sua ferma condanna di qualunque compromesso con il male, giudicato dalla studiosa in tutti i suoi scritti come un compromesso pienamente immorale.
Nel fare una veloce panoramica della monumentale bibliografia prodotta da Hannah Arendt, non si può non partire dalla sua opera più nota è senz’altro The Origins of Totalitarianism. Pubblicato nel 1951 ma editata in italiano sedici anni dopo, il lavoro della Arendt codifica uno dei concetti più fecondi ed ambigui dell’analisi sociale. Per la studiosa germano-americana il totalitarismo sarebbe stato un fenomeno specificamente del XX secolo, senza precedenti nella storia dell’umanità. Figlio sia della crisi dello stato-nazione nato in Età Moderna che del disgregamento novecentesco delle ottocentesche strutture di classe, il totalitarismo sarebbe stato per Hannah Arendt il frutto del senso di dispersione delle coscienze in un mondo dove gli individui, venuti a mancare il senso di appartenenza allo stato-nazione e alla classe di provenienza, si comportano come atomi senza un centro. Questo centro sarebbe stato rappresentato dall’ideologia: essa avrebbe riorganizzato gli individui prima atomizzati in nuovi gruppi, le masse, che di per sé sarebbero sussistite in virtù di una mobilitazione politica e ideologica permanente. Il totalitarismo sarebbe dunque stato secondo Hannah Arendt un disegno di dominio da parte degli ideologi su qualunque aspetto, anche il più intimo e personale, della vita degli individui.
Importante sottolineare che per la studiosa di Hannover il totalitarismo si sarebbe concretizzato solo nell’Unione Sovietica guidata da Josip Stalin e nella Germania nazista. Questa interpretazione sarebbe stata destinata a influenzare molto sia gli studi che la percezione pubblica su questi regimi. Per Hannah Arendt il fascismo italiano sarebbe invece stato un regime totalitario incompleto, in quanto da un lato sia la Chiesa cattolica che la monarchia sabauda avrebbero limitato le pretese di controllo assoluto del regime mussoliniano. Dall’altro lato, la Arendt sottolineò a sfavore della natura totalitaria del fascismo italiano un suo supposto disinteresse per la persecuzione degli ebrei. Gli studi più recenti hanno però evidenziato che la filosofa fu tratta in errore dal fatto che tutte le fonti che smentiscono un’estraneità del fascismo alle persecuzioni antisemite e all’olocausto fossero a suo tempo inedite.
Un altro lavoro fondamentale del pensiero di Hannah Arendt è The Human Condition. Pubblicato in originale nel 1958 e edito in Italia nel 1964 con il titolo Vita Activa, si tratta di un trattato sistematico e ad ampio raggio su quel che la studiosa di fede giudaica definiva vita activa. Molto influenzato dalla speculazione di Martin Heidegger, The Human Condition contiene una difesa degli ideali classici di lavoro, cittadinanza e azione politica. L’obbiettivo polemico di questo scritto di Hannah Arendt è costituito dal Welfare State, del quale denuncia la natura, a suo modo di vedere, economicista e anti-etica, non dissimile dallo stato totalitario, in quanto entrambi ugualmente dominati dalla ricerca dell’utile e dalla atomizzazione e meccanizzazione, causata dell’impiego delle nuove tecnologie.
Hannah Arendt affermò con chiarezza le sue idee politiche e la sua lettura liberaldemocratica della società e della storia in On Revolution. Pubblicata nel 1962 ma edita in italiano ben ventun anni dopo, On Revolution è un’analisi comparata delle rivoluzioni francese e americana. Poiché quest’opera costituirà l’oggetto di un prossimo approfondimento su questa rivista, si dirà solo che la studiosa di Hannover individuò a suo avviso una tensione tra le istanze della democrazia di base da un lato e la guida elitaria dei movimenti rivoluzionari dall’altro lato.
Il saggio di Hannah più noto e più studiato nelle università seguì di un anno la pubblicazione di On Revolution: nel 1963 vide la luce Eichmann in Jerusalem, noto in italiano con la traduzione del suo sottotitolo, La banalità del male. La tempestività dell’edizione italiana, del 1964, rispetto alle altre opere della filosofa germano-americana è spia dell’interesse che il saggio suscitò tra gli studiosi e nell’opinione pubblica. La banalità del male nacque infatti dal reportage realizzato della stessa Hannah Arendt al processo contro Adolf Eichmann, l’architetto principale della “soluzione finale” contro gli ebrei nei sei campi di sterminio negli anni ’40. Hannah Arendt era presente a Gerusalemme in quanto corrispondente della rivista “The New Yorker”. Il controverso contenuto del lavoro è che i crimini di Eichmann non sarebbero stati il risultato di una personalità malvagia e deviata, ma da una assenza di pensiero (“thoughtlessness”): Eichmann sarebbe stato, secondo Hannah Arendt, semplicemente un burocrate ambizioso, incapace di mettersi a riflettere sull’enormità e l’atrocità delle sue azioni. Nel ruolo di Eichmann nello sterminio degli ebrei si sarebbe quindi incarnata la banalità del male: il male è banale perché si affianca competitivamente ai pensieri e alle parole degli uomini, svilendone la portata e il significato.
Tanto il rifiuto arendtiano di riconoscere la malvagità intrinseca di Eichmann e altri personaggi attivi nel genocidio degli ebrei quanto l’inedita (per quegli anni) attenzione alle responsabilità dei capi delle comunità ebraiche nell’agevolare la politica di sterminio nazista attirarono moltissime critiche ad Hannah Arendt. Tali critiche sono state riprese dagli storici contemporanei, che hanno confutato la teoria arendtiana attraverso documenti di cui la studiosa originaria di Hannover non disponeva e che rivelano l’antisemitismo di lungo corso di Adolf Eichmann.
Hannah Arendt morì a New York il 4 dicembre 1975 all’età di sessantanove anni. Il suo manoscritto incompiuto The Life of the Mind venne curato e pubblicato postumo nel 1978 dalla sua amica e corrispondente Mary McCarthy. Responsibility and Judgment, pubblicato nel 2003, è una raccolta di saggi e conferenze di filosofia morale che seguirono le polemiche degli anni successivi intorno alla pubblicazione di Eichmann in Jerusalem. Oltre a quelli menzionati, altri titoli noti della studiosa di Hannover sono Between Past and Future (1961), Men in Dark Times (1968), On Violence (1970) e Crises of the Republic (1972).