Guerra in Israele: il tempo della coesione

L’instabilità globale continua ad aumentare e pare che sempre maggiori scenari di crisi emergano: a partire dal 2022, abbiamo assistito ad un aumento vertiginoso delle tensioni tra gli Stati e dentro gli Stati. Partendo dalla guerra in Ucraina, abbiamo poi assistito alle proteste represse nel sangue in Iran; non vanno poi ignorati i colpi di Stato, riusciti e no, nei Paesi africani del Sahel, che ha portato ad una divisione interna all’ECOWAS; per arrivare poi ad altri due conflitti che ci riguardano più da vicini: geograficamente il conflitto in Nagorno-Karabakh/Arzak, politicamente una nuova escalation delle tensioni tra Israele e Palestina, dovuto all’attacco improvviso organizzato da Hamas contro Tel Aviv. 

La paura principale è quella di una improbabile escalation di area: non sono pochi quelli che temono un immediato coinvolgimento dell’Iran contro Israele ed un conseguente intervento da parte degli Stati Uniti. La prima questione da smentire è esattamente questa: anche se l’Iran ha minacciato di bloccare lo Stretto di Hormuz (che avrebbe conseguenze catastrofiche sui prezzi dell’energia, già stressati dagli effetti della crisi del covid e dalla guerra in Ucraina) e gli Stati Uniti hanno affermato di essere pronti ad intervenire contro tutti, è davvero improbabile che vi sia un allargamento del teatro di guerra. Le questioni realmente preoccupanti sono altre: la reazione del mondo islamico, la proporzione della reazione militare di Israele, la possibile conseguente crisi migratoria ed un ritorno alle stragi terroristiche, la tensione all’interno di gruppi sociali multietnici. 

Ciò che davvero deve preoccupare è l’eco che questo conflitto può avere nella comunità internazionale e sul mondo islamico in prima battuta: è chiaro che un attacco del genere non sia stato escogitato in una notte. Hamas preparava da tempo l’attacco da Gaza, sapendo di non poter ottenere nessun obiettivo strategico nel lungo periodo; Israele, la maggiore potenza militare del Medio Oriente, poteva solo essere sconvolta, ma non sconfitta. In un certo senso, seppur questa operazione presenti le caratteristiche di un attacco convenzionale, i suoi obiettivi erano molto più simili ad un “comune” atto terroristico: destabilizzare e sgomentare, forse paralizzare, ma era impensabile una qualche forma di occupazione territoriale. 

In prospettiva, possiamo pensare che l’obiettivo dell’attacco fosse duplice: verso Israele, per dimostrare la lotta continua e che le sue difese non sono impenetrabili; verso il mondo islamico più radicalizzato per dimostrare che una debolezza c’è, che lo Stato israeliano non è invincibile e che è quindi possibile colpirlo. 

Bisogna ora stare attenti, però, alla reazione di Israele: poiché l’Occidente è spaccato (si legga la terza pubblicazione della nostra newsletter), Tel Aviv rischia di non ricevere il supporto necessario e di essere anzi denunciata per la risposta che darà ad Hamas (e ad opinione di chi scrive, l’occupazione del parlamento di Gaza non è un segnale proprio conciliante). Se da una parte è vero che Israele ha tutto il diritto di difendere sé stessa, la propria popolazione e di cercare di liberare gli ostaggi catturati, è anche vero che una reazione spropositata potrebbe farle perdere il supporto da quella parte di Occidente che si dimostra critico nei suoi confronti. 

Per non parlare del fatto che, una reazione eccessivamente aggressiva, potrebbe spingere ancora più palestinesi nelle fila di Hamas e perdere anche ogni possibilità di cooperazione con l’ANP in Cisgiordania, o portare all’insurrezione di tutti quei gruppi islamisti che nel Medio Oriente non aspettano che un segnale per scatenare la loro violenza (si pensi ad Hezbollah in Libano, con cui si è accesa una fortissima tensione nei giorni successivi all’attacco da parte di Hamas). 

L’occasione, poi, potrebbe essere ghiotta per tutte le cellule terroristiche dormienti o per i lupi solitari che in Europa sperano ancora di riportare la jihad. Segnali, in questo senso, ne abbiamo purtroppo già avuti in Francia, Belgio, Paesi Bassi e Stati Uniti, con un pericoloso aumento di ondate antisemite in tutti i Paesi occidentali ad opera di gruppi estremisti (sia di destra, che di sinistra, ma anche etnici e religiosi). 

Non solo: un altro fattore di rischio è la tensione tra gruppi etnico-sociali ed ideologizzati. Nel mondo anglosassone non sono mancati episodi di fortissima tensione tra gruppi di musulmani ed ebrei, con atti di violenza da entrambe le parti. Nelle università più pervase dalla cultura woke si è aperta una vera e propria caccia ai filoisraeliani, con le classiche manifestazioni di cancel culture mirate a chiedere lo smantellamento di Israele, senza rendersi conto che, così facendo, vanno a colpire l’unico Stato in quell’area di mondo che riconosce i diritti per cui lottano. La violenza ha invaso anche le strade, come testimonia la morte dell’anziano Paul Kessler, ebreo americano deceduto in seguito ad un pestaggio da parte di manifestanti in un corteo pro-Palestina. Ma episodi simili accadono ormai ovunque, anche in Russia: hanno fatto il giro del globo le immagini dell’aeroporto in Daghestan invaso da una folla alla ricerca di ebrei dopo l’arrivo di un volo da Tel Aviv. 

La questione potrebbe essere anche un volano contro noi europei in un periodo di incerto equilibrio: se Israele conducesse una violenta operazione di terra contro la Striscia di Gaza, ci ritroveremmo davanti ad un esodo di proporzioni impensabili, considerando che più di due milioni di persone abita quel lembo di terra senza poterlo abbandonare, bloccati dagli stessi aguzzini di Hamas. L’Egitto non ha perso tempo a murare il passaggio di Rafah (in beffa alla solidarietà vantata dalla Lega Araba, che a tal proposito non si è offerta di accogliere i rifugiati palestinesi) e, a meno che non si voglia perpetrare un massacro di civili, la popolazione dovrà pur fuggire altrove. Se la rotta indicata dovesse essere quella per l’Europa, dovremmo gestire una crisi migratoria ben più grave di quella che abbiamo gestito finora, con grande gioia delle destre europee che userebbero la questione a proprio vantaggio nelle prossime elezioni per l’Europarlamento. 

Va considerato che l’offensiva terrestre e l’occupazione della Striscia di Gaza non risolverà il problema di Hamas: anche qualora dovesse essere sgominata, non v’è dubbio che nell’arco di qualche anno si verrebbe a ricostituire qualche nuova entità terroristica che ne adotterebbe i fini ed i mezzi, per non parlare del rischio di coinvolgere la popolazione innocente, data la nota “abitudine” del gruppo di usare strutture e civili come vero e proprio scudo (<<I tunnel sono per i combattenti, ai civili ci pensi l’ONU>>, per citare una delle teste di Hamas). 

Una reazione troppo forte potrebbe quindi fare solo il gioco di Hamas, che supportato dall’Iran (che non aspetta altro che sfogare le proprie tensioni interne verso l’estero), permetterebbe di ostracizzare Israele davanti alla comunità internazionale. Cosa fare dunque? Ci sono una serie di azioni, soprattutto diplomatiche e dimostrative, che l’Occidente potrebbe fare per cercare di pacificare la situazione. 

La prima cosa da fare è delegittimare Hamas agli occhi degli stessi palestinesi: pertanto, è necessario che venga chiamato come interlocutore l’ANP, in quanto riconosciuta dall’ONU e dalla stessa Israele come la legittima rappresentante della Palestina. Bisognerebbe poi chiedere, e forse forzare, le due entità a collaborare per lo smantellamento di Hamas, cosa senza dubbio non facile considerando che i suoi vertici si saranno rifugiati in altri Paesi, come il Qatar, facendo i martiri con le vite altrui (e lo dimostra la dichiarazione di uno dei portavoce di Hamas: <<Il sangue dei bambini alimenta la nostra forza rivoluzionaria>>). A questo, va fatta seguire una proposta concreta per permettere la coesistenza di Israele e Palestina, aiutando quest’ultima a costruire un’entità statale stabile e democratica. Ed in questo senso spinge la proposta del professor Vittorio Emanuele Parsi, che mira alla creazione di una forza di interposizione formata dai Paesi degli accordi di Abramo. 

Ciò che deve trascendere da tutto è il nostro supporto per Israele: uno Stato democratico (con tutti i suoi pregi e difetti, che pure sono tanti, e la collaborazione dei partiti con formazioni ultraortodosse lo dimostra) che condivide i nostri valori. In un periodo di instabilità globale pieno di guerre, colpi di Stato ed ingerenze, è necessario rimanere compatti e vicini ai propri alleati. Bisogna rendersi disponibili al dialogo con tutti pur stando attenti a ciò che accade attorno. Tendere una mano per aiutare, insomma, ma tenere l’altra per proteggersi o aiutare un Paese amico. Non va mai dimenticato che il nostro sistema di valori liberale e democratico è sotto accusa e sotto attacco da molti che non esiterebbero un secondo per sostituirlo con modelli oligarchici, autocratici o clericali. 

I fattori di instabilità globali sono legati tra loro ed uno ne rafforza un altro. Iran e Russia ne traggono beneficio sul piano interno, con la prima che sfoga le proprie tensioni verso Israele, la seconda ottenendo la distrazione dei Paesi occidentali dal conflitto in Ucraina; la Cina, in tutto questo, può continuare a fare il suo gioco da “poliziotto buono” dell’asse antioccidentale, preparandosi ad essere una minaccia ancora più grande nel lungo periodo. E noi, come Occidente, dobbiamo imparare a tenere d’occhio tutte queste situazioni di crisi, imparare a gestirle alzando anche la voce dove serve e, soprattutto, rimanendo uniti. 

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