Nelle ultime settimane i quotidiani e i settimanali sono stati dominati da notizie riguardo le elezioni regionali in Lombardia, Lazio e Friuli-Venezia-Giulia. Il provincialismo è una malattia atavica della cultura politica e mediatica italiana e raramente ci si interessa all’estero. Se lo si fa, ci si interessa perlopiù agli USA o ai tre paesi più grandi del continente, cioè Francia, Germania e Regno Unito. Il livello di approfondimento peraltro non è mai troppo elevato e il tipo di argomenti che attirano l’attenzione sono generalmente frivoli.
Ecco, noi liberali vorremmo tentare di andare oltre e riflettere su cosa succede nel mondo e in questa Unione Europea di cui facciamo, sì, parte, ma dove agiamo da estranei in casa propria. Ci sono Paesi che per l’italiano preso a caso dalla strada sono misconosciuti. Eppure sono Paesi con i quali stiamo intraprendendo da tantissimi anni un processo di integrazione economica e politica.
È quindi sul recente esito elettorale di uno di questi Paesi che, almeno per il momento, ci vogliamo concentrare, distraendoci per un attimo dalla bagarre per le elezioni regionali che tanto sta dominando le cronache dei media, insieme ad altri spiacevoli episodi in Parlamento che avremmo preferito non dover commentare e che di certo non commenteremo in questa sede. Questo poiché vogliamo occuparci delle elezioni presidenziali in Repubblica Ceca del 27 e 28 gennaio 2023.
La Repubblica Ceca è il più prezioso indicatore dello stato di salute dell’Europa. Paese cattolico (come l’Europa centromeridionale) ma con tanti protestanti (come l’Europa nordoccidentale) e a dominanza atea (come in tutti i paesi dell’Europa ex socialista), geograficamente a cavallo tra l’area danubiana e l’area renana, tra i Balcani e il mar Baltico e tra l’osservante Polonia e la laica Germania, la Repubblica Ceca presenta uno sviluppo culturale e delle infrastrutture economiche di stampo occidentale ma conserva una lingua slava e stipendi che si avvicinano più a quelli della Romania che a quelli della vicina Germania.
In altri termini, la Repubblica Ceca rappresenta il prisma attraverso cui osservare tutte le pulsioni del progetto europeo. Da queste elezioni presidenziali è arrivata una bellissima notizia. Il populista Andrej Babiš è stato sconfitto dal candidato indipendente Petr Pavel, sostenuto però da una parte consistente dell’alleanza di centrodestra.
Andrej Babiš è un politico populista di orientamento conservatore. Imprenditore in diversi settori, è figura controversa. Figlio di un diplomatico della Cecoslovacchia comunista, ebbe tutti i privilegi che questa posizione comportava, studiando in scuole prestigiose nell’area di lingua francese. Fu spia per il Servizio Segreto cecoslovacco comunista, avvalendosi della sua posizione di dipendente con ruolo manageriale in un’azienda statale di cui era rappresentante dirigente in Marocco. Dopo il crollo del comunismo, Babiš acquisì una fortuna immensa, con metodi spesso opachi (vantando l’aiuto di presunti finanziatori tra ex compagni di scuola in Svizzera!).
Successivamente, l’imprenditore ha acquistato giornali, radio e televisioni, dai quali ha iniziato a sfruttare la frustrazione e le paure dei cechi per far conoscere sé e il suo partito politico, ANO (Azione Cittadini Insoddisfatti). Fondato nel 2011, nel 2013 ANO alle elezioni parlamentari raccoglie il 18,66% dei voti, risultato migliorato alle parlamentari sia del 2017 (29,74%) che del 2018 (27,13%). Grazie a questi risultati, Babiš è riuscito a diventare prima ministro delle finanze e vice-premier tra 2014 e 2017 e poi, dal 2017 fino al 2021, primo ministro del paese boemo.
I riferimenti politici espliciti di Babiš sono Berlusconi, Trump e, fino all’invasione dell’Ucraina, Putin. Per molti aspetti, la sua proposta di non aiutare l’Ucraina nell’invasione, la sua promessa (poi subito ritirata) di non aiutare Polonia e Lituania in caso di invasione russa e la repulsione per il metodo delle sanzioni, oltre alle posizioni duramente conservatrici in materia di diritti civili, immigrazione e welfare, fanno di Babiš una personalità molto prossima a quella del leader ungherese Orban.
Di ben altra pasta è lo sfidante Petr Pavel. Ex generale in pensione, durante la sua lunga e decorata carriera militare Pavel ha servito il suo Paese prima all’interno del Patto di Varsavia e poi nella NATO. All’interno della NATO, ha svolto un ruolo sostanziale nelle Guerre Jugoslave prima e nella Guerra in Iraq poi, ottenendo grande prestigio all’estero e in patria. Ritiratosi nel 2018, il suo impegno civico attivo inizia nel 2020, in occasione della pandemia da Covid-19. Vaccinista convinto, sostenitore di metodi di intervento razionali e scientificamente fondati, Pavel crea un grande gruppo di esperti nazionali e invia i risultati delle indagini e le relative proposte a un riluttante primo ministro Babiš.
A seguito di questa attività, si candida come indipendente sostenuto da pezzi di centro-destra, la cui restante parte sostiene altri due candidati al primo turno delle presidenziali. Al primo turno Babiš prende il 34,99% dei voti, Pavel il 35,4%. Gli altri due candidati del centrodestra prendono assieme oltre il 20% dei voti. Al secondo turno, Babiš conquista solo il 41,68% dei voti, a favore di Pavel che ottiene il 58,32% delle preferenze. L’elezione di Petr Pavel a Presidente della Repubblica Ceca costituisce non solo la sconfitta del populista Babiš ma soprattutto la seconda scoppola di fila in due anni per le idee politiche di ANO, ormai ai margini della vita politica del paese.
Pavel si definisce un centrista. Il suo modello di sviluppo per la Repubblica Ceca sono i paesi scandinavi. Convinto europeista e atlantista, è favorevole ad una estensione dei diritti civili, a migliori condizioni per le donne e a una maggiore integrazione delle persone LGBTQI+ attraverso maggiori tutele e la possibilità di adottare figli. Pavel rassicura l’Europa, la NATO, che ha servito per tanti anni in momenti molto complicati, ma soprattutto i cechi, che lo hanno eletto in maggioranza netta e che sono solidali verso i vicini, specie quelli direttamente minacciati dalla Russia putiniana.
La vittoria di Pavel pone la pietra tombale sullo spirito di Visegrád e sui tentativi ungheresi di “orbanizzazione” (per così dire) della politica europea. Già l’elezione, da un lato, in Slovacchia, di una coalizione liberaldemocratica e l’ammorbidimento, dall’altro lato, in Polonia, delle posizioni di Duda avevano costituito un passo in avanti significativo. L’invasione russa dell’Ucraina ha infine rivelato chi era semplicemente troppo conservatore e troppo spaventato dall’avanzare di una certa modernità europea e chi, invece, era davvero in malafede rispetto ai processi di integrazione e faceva il doppio gioco, guardando con un occhio alla ricca erogatrice di fondi a Bruxelles e strizzando invece l’altro occhio a un Putin con velleità di zarismo, affascinati dall’idea di diventarne i boiardi.
Orban è un boiardo, Babiš un aspirante tale.
Sia chiaro: la Repubblica ceca è un osservatorio interessante ma certamente è un Paese di meno di 11 milioni di abitanti. Il suo sistema politico è molto spostato verso destra, la sinistra si è suicidata con le vergognose condotte politiche e familiari del presidente uscente Miloš Zeman, colpevole di un forte avvicinamento a Putin, di molti scandali finanziari, gaffe e parenti con comportamenti non propriamente presidenziali. Inoltre, lo stesso neo-eletto Petr Pavel, a cui auguriamo un buono e proficuo lavoro, non si può affatto definire un liberale, avendo tra le sue posizioni quella di aumentare il carico fiscale sui ricchi (in un Paese che ha comunque una fiscalità inferiore all’Italia e tanti Paesi europei, oscillante tra il 15% e il 26% di tassazione dei redditi).
Chiarite le specificità del caso ceco, è importante che l’onda lunga di Visegrád si sia definitivamente infranta, confinandosi alla satrapìa di Orban e agli atteggiamenti rivedibili di parte dei politici polacchi.
Il timore è che ora bisogna guardarsi in casa: il demo-laburismo iberico, la non-scomparsa del M5S nel Meridione d’Italia, la radicalizzazione delle posizioni sociali e politiche in Italia Settentrionale, Francia e Inghilterra sono campanelli di allarme molto pericolosi. Insomma, i pericoli per la liberaldemocrazia europea ed europeista non sembrerebbero più giungere da est ma dai Paesi latini. Ciò deve renderci vigili e motivati a proseguire il nostro impegno civico per la libertà.