Disordini in Francia: un problema che viene da lontano

Ripercorriamo il fatto di cronaca: a Nanterre, piccolo paese non molto distante da Parigi, la mattina del 27 Giugno, Nahel, un ragazzo di 17 anni, è alla guida di un’auto noleggiata e prestatagli da un amico maggiorenne. Il giovane viene fermato da due poliziotti ed uno di loro estrae la pistola, puntandola verso il conducente. Da quel che si vede dal video fatto da un passante, il poliziotto minaccia di sparare e Nahel tenta di allontanarsi in auto. Segue la tragedia: parte il colpo, il ragazzo viene colpito al petto e muore poco dopo.

La madre del ragazzo ucciso ha subito chiesto giustizia per il figlio, e delle proteste contro la violenza della polizia sono subito scoppiate nella stessa Nanterre. Non è la prima volta infatti che la polizia uccide dei civili, spesso anche per dei fraintendimenti sfociati in tragedia. Ad essere accusata è una legge del 2017, che a detta di alcuni, amplia di troppo i casi in cui l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine è tollerato. Inoltre, stando ad un report del 2022, sarebbero almeno 20 le persone uccise da agenti di polizia in situazioni simili, ed altre 18 sarebbero le vittime nel 2021. Si può quindi comprendere il motivo delle proteste, ma non la loro violenza.

Le proteste si sono immediatamente diffuse in altre città della Francia, toccando anche Svizzera, Belgio e Paesi Bassi, seppur in misura nettamente minore. Le manifestazioni si sono presto trasformate in violenze e vandalismo generalizzato, e forze di polizia sono state dispiegate nelle varie città. In alcuni casi, il tumulto è stato talmente grave da aver indotto alcuni sindaci ad istituire un coprifuoco e a chiedere lo stato di emergenza, chiedendo che venissero adottate misure simili a quelle prese dopo la strage del Bataclan, e forse non a torto. Sono noti i video in cui si vedono vere e proprie orde sfondare vetrine di negozi e centri commerciali per fare razzia, o di veicoli ribaltati ed incendiati. Tutte cose che poco hanno a che fare con una protesta contro la violenza della polizia, e che anzi richiede al braccio dello Stato di essere fermo per proteggere l’incolumità di altri cittadini inermi.

Queste misure, se verranno adottate, saranno comunque misure tardive, atte a contenere i danni ma non a prevenirli. La protesta (o la sommossa, che dir si voglia) è solo il sintomo di una lunga serie di problemi che deve essere analizzata partendo dalle condizioni sociali ed economiche di alcune fasce della popolazione francese.

Il moto, al di là della ragione scatenante, è animato prevalentemente dagli abitanti delle banlieue, ossia le periferie delle città medio-grandi, generalmente lasciate al degrado e che finiscono per essere dei veri e propri ghetti per quella fascia di popolazione che vive in condizioni precarie e che spesso appartiene a famiglie di immigrati di terza o quarta generazione, come Nahel.

Il fenomeno delle banlieue ha una lunga storia che parte dal 1800, ed andava ad identificare quelle porzioni di città atte ad accogliere le masse di lavoratori di fabbrica. Le periferie hanno continuato ad espandersi soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, quando l’edilizia popolare ha iniziato ad essere un tema trattato dai vari governi. Sempre più, però, i sobborghi hanno assunto l’incarico di raccogliere le classi meno agiate, diventando tra le altre cose, i luoghi di nascita e sviluppo dei movimenti operai. Col passare dei decenni, questa percezione quasi ghettizzante delle banlieue è stato solo confermato: alle classi lavoratrici meno agiate, sono state affiancate le famiglie di migranti.

È naturale pertanto che ad un aumento della popolazione in questi “quartieri” sarebbe dovuto seguire anche un aumento degli investimenti in servizi e manutenzione; cosa che, puntualmente, è avvenuta con scarso impegno.

Questa politica di isolamento di queste fasce di popolazione mal si sposa con l’ideale tipicamente francese di assimiliation, dottrina per la quale la Francia non è solo un Paese, ma un “concetto” di cui chiunque può farsi promotore, adottando gli ideali che determinano l’essere francese. Ma come può avvenire l’assimilazione lì dove un gruppo sociale così omogeneo viene isolato? Non ci sono i presupposti affinché un migrante (soprattutto se di terza o quarta generazioni) si senta pienamente cittadino francese, ed allo stesso tempo saprà di non essere legato al Paese d’origine dei genitori, non avendolo probabilmente mai nemmeno visitato. È chiaro che vengono a mancare completamente le basi per un simile progetto, considerando come anche le scuole (luogo di incontro e relazione per eccellenza) siano vittime di questa ripartizione urbana.

È un problema che viene da lontano insomma, soprattutto se consideriamo che l’assimilation finisce per essere un progetto violento in senso lato. Va ricordato infatti come nel 2020 Macron avesse proposto di istituire delle scuole statali musulmane per la formazione degli imam: se da un lato un’opzione simile finisce per essere senza ombra di dubbio una mossa per prevenire il fondamentalismo islamico (che trova terreno fertile proprio nelle banlieue, così come ogni forma di estremismo politico), dall’altro lato rischia di essere percepita come un tentativo dello Stato di interferire con la vita religiosa degli individui. Va precisato, a scanso di equivoci, che uno Stato laico non può e non deve interferire nella vita religiosa dei cittadini, e che misure di intervento devono essere prese solo qualora si costituisca un rischio per la società.

Un altro esempio utile per comprendere il funzionamento del modello di assimilazione è quello dell’uso del burqa: anche in questo caso, sono anni che in Francia si parla della possibilità di vietare l’uso di copricapi per uso religioso, giustificando l’idea sia per motivi di sicurezza che con motivi di laicismo (che va ricordato, non è però sinonimo di ateismo). Al contrario, imporre o vietare usi che non costituiscono un pericolo per la società, mina la libertà religiosa dei singoli.

Al modello francese di assimilazione si contrappone quello di integrazione, un modello sicuramente meno rigido e più aperto alle diverse sensibilità. Infatti l’integrazione non richiede una forzatura o la rinuncia a pratiche innocue, lascia libertà di vivere la propria fede e tradizioni liberamente ed è (almeno in teoria) vissuta come arricchimento culturale reciproco. In questo senso, si sposa molto meglio con il principio di democrazia liberale.

In tutto questo, infine, non va dimenticato il ruolo che gioca la democrazia e l’inclusione che ne deriva: in una certa misura, possiamo dire che una delle cause dei disordini scoppiati in Francia è dovuto ad una mancanza di democrazia, ossia dall’assenza della possibilità di esprimere il proprio disagio. Ne consegue che, dove è assente la possibilità di esprimersi, qualunque cosa può diventare un’alternativa al silenzio; compresa la rivolta, la razzia ed il saccheggio.

La violenza non può essere giustificata. Ed in questo senso, sia il Governo francese che i manifestanti stanno commettendo gravi errori: l’esecutivo ha infatti varato una legge che permette alla polizia di accedere a microfoni e videocamere dei cellulari per spiare ed intervenire in anticipo nei luoghi dove nuove proteste si stanno organizzando; i manifestanti invece, continuando con azioni di violenza gratuita, danni alle proprietà e disordine, non fanno che allontanare le simpatie dei cittadini che, inermi, vengono anzi danneggiati. Inoltre, queste insurrezioni, non sono che una grande esplosione di rabbia, nonché una grande occasione persa: alla collera disorganizzata, si sarebbe potuta sostituire una protesta organizzata capace di presentare a tutte le forze politiche francesi una rivendicazione sociale, atta ad impedire che si ripetano episodi simili in futuro.

/ 5
Grazie per aver votato!