Cittadinanza: la via per combattere il populismo

Nell’ultimo decennio i media ci hanno abituato a sentire una parola, un termine, che racchiude in sé un gran numero di significati: populismo. È una parola poliedrica, dalle mille facce, a volte anche in contrasto tra loro. Senza addentrarsi troppo nel capire di come si compone e cosa sia (studi e ricerche ancora oggi non hanno definito univocamente il fenomeno populista) un passo indietro è necessario per capire come nasce.

Essa è frutto di una richiesta di ascolto da parte del “popolo” alla classe dirigente, accusata di essere autoreferenziale, insensibile ai veri problemi sofferti dalla popolazione. Questa domanda viene raccolta da alcune parti, che accolgono e rilanciano questo senso di disagio; non è raro sentire capi populisti dire: <<Se essere populisti significa fare il volere del popolo, allora io sono populista>>. Si vanta una vicinanza privilegiata del leader con il “popolo”, che difende i suoi interessi ed interloquisce direttamente con la gente. Conseguenza di questa comunicazione è la semplificazione del linguaggio, che abbassa inevitabilmente la qualità del dibattito e delle proposte che ne seguono: per rendere una proposta comprensibile a tutti la si semplifica al punto tale da sottrarle ogni efficacia. Ed il linguaggio semplificato non permette una conoscenza approfondita delle proposte, per cui continueranno ad essere preferiti capi che usano questo tipo di registro, perdendo la capacità di portare avanti proposte impattanti e realmente risolutive. E quando le conseguenze arrivano, la colpa sarà sempre di qualcun altro, siano essi un’opposta parte politica, enti sovranazionali, il libero mercato o i celeberrimi poteri forti.

C’è però un’incomprensione di fondo che mina alla base lo stesso concetto di populismo. Cos’è il popolo? Per definizione, è l’insieme della popolazione che vive stabilmente in un territorio e che è caratterizzato da una storia, una cultura e, anche se non sempre, una lingua comune. Il popolo è di per sé una moltitudine variegata, sfaccettata, poiché il popolo altro non è che una somma delle parti. Ed anzi, anche definirlo come una somma può risultare errato. L’unione degli individui non restituisce infatti la volontà di ognuno di quelli che al popolo appartiene. Il popolo sacrifica automaticamente le volontà particolari degli individui per rafforzare un’unica istanza condivisa. Al mancare di questa condizione (ossia un interesse comune) il singolo viene escluso: se una massa si prefigge un obiettivo autodefinendosi come popolo, chiunque non condivide quel fine non sarà parte del popolo, quindi un traditore. <<Per il solo fatto di far parte di una folla, l’uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è un istintivo, per conseguenza un barbaro>>, queste le parole di Le Bon sull’individuo all’interno di una massa. Insomma, il popolo è una massa informe e selvaggia, che cerca il raggiungimento di un obiettivo nel più breve tempo possibile, non importa con quale mezzo. Ed il richiamo al popolo sempre più aperto e disinvolto sta già portando alla luce la debolezza di questa visione del mondo.

A noi liberali di ogni tipo e famiglia, tocca un compito di contrasto alla deriva populista. Al concetto di popolo va opposto quello di cittadinanza. Rivolgersi alla popolazione chiamandola cittadinanza comporta tutta una serie di conseguenze opposte a quelle prodotte dal populismo.

Per iniziare, richiama ad una vera unità popolare: il riferimento non è più ad una moltitudine chiamata a rispecchiarsi in pochi o semplici ideali, ma a tutti coloro che sono ugualmente tutelati dalla Legge ed ugualmente chiamati all’osservanza dei Doveri, nel rispetto della società. Ne consegue che la cittadinanza è individualista ma anche plurale: questo ossimoro è dovuto al fatto che ogni individuo può emergere e differenziarsi, secondo le proprie inclinazioni e tendenze, libero di esprimere se stesso in linea con le proprie potenzialità. Inoltre, la cittadinanza chiama alla responsabilità, perché non c’è un capopopolo dietro al quale la massa può nascondersi ed incolpare qualora le cose andassero (inevitabilmente) male. Si è tutti ugualmente responsabili delle proprie idee e delle proprie azioni; di riflesso si produce una spinta all’azione, poiché la soluzione non viene più calata dall’alto dal leader, ma è il frutto della collaborazione e delle competenze di ogni cittadino. E parlando di competenze, altro effetto è lo sviluppo di quest’ultime: lì dove un problema sembra non avere soluzione arriverà qualcuno che, interessato alla risoluzione della falla, avvierà un confronto con chi quel problema lo conosce, premurandosi di comporre una proposta coerente, studiata ed approfondita, basata su dati e non ideologie. Ma sarà scelta di ogni cittadino interessarsi o meno a determinate questioni. Questo aspetto si lega al discorso sulla meritocrazia: mettendo insieme competenze ed un pizzico di ambizione personale, si creerà un incentivo a cooperare per la risoluzione dei problemi. Infine, ha anche degli effetti esterni: se l’idea di cittadinanza si sovrappone a quella di popolo sarà inevitabile l’apertura a coloro che vorranno vivere nel nostro Paese, ponendo delle basi diverse per la risoluzione di alcuni problemi impellenti (immigrazione, integrazione, criminalità, sfruttamento, demografia calante ed invecchiamento della popolazione) e per l’emarginazione del pensiero xenofobo.

Populismo e cittadinanza, un circolo vizioso ed uno virtuoso. Spesso non ci si rende conto di quanto una singola parola possa influenzare la qualità del dibattito politico. In un mare inquinato, noi liberali di ogni genere dobbiamo essere una sorgente d’acqua fresca, che permetta al cittadino di rifocillarsi e riacquisire conoscenza del proprio valore.

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