BRICS: mattoni di carta

Nei gruppi politici antagonisti all’Occidente, non si fa altro che cercare uno schieramento da opporre alla propria casa. Nel periodo della Guerra Fredda, il blocco comunista era facilmente indicato come stella polare dell’antioccidentalismo, ma non mancavano di certo coloro che impugnavano posizione di stampo terzomondiste, senza troppo discostarsi dagli ideali socialisti. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’inizio della globalizzazione, questa ricerca è andata esasperandosi, arrivando ai giorni nostri a riconoscere l’alternativa all’Occidente nel famigerato gruppo BRICS.

BRICS altro non è che l’acronimo di un gruppo di Paesi, il cui unico minimo comune denominatore è essere economie emergenti. Il gruppo nasce nel 2009, fondato da Brasile, Russia, India e Cina, ai quali si unirà il Sudafrica un anno dopo. I BRICS sono percepiti essere, sia da chi li teme che da chi li osanna, come la vera alternativa al monopolismo statunitense e all’Occidente in generale; su di loro grava l’aspettativa di iniziare il processo di de-dollarizzazione dell’economia globale e traghettare il mondo verso il multipolarismo (nonostante i loro scambi commerciali e le loro riserve di moneta estera siano soprattutto in valute occidentali, quali dollaro, euro e yuan).

Ancora più aspettativa viene posta su di loro se si considera il recente allargamento compiuto il 1° Gennaio 2024: a partire da quest’anno, infatti, il gruppo BRICS ha raddoppiato il numero dei propri componenti, aggiungendo ai cinque originali altri Paesi quali Etiopia, Egitto, Arabia Saudita, Iran ed Emirati Arabi Uniti. I BRICS+ (così ora chiamati per includere i nuovi membri) rappresentano di certo un importante mercato, con i loro 3,5mld di abitanti (45% della popolazione mondiale) ed un’economia che vale il 28% di quella globale, ma grossi dubbi si sollevano sulla loro capacità di contrapporsi, in senso antagonistico, al dollaro o all’euro. Il problema sorge non tanto sulla loro capacità di creare un mercato attraente, quanto piuttosto sulla loro capacità di cooperare anche a livello politico. Osservando bene i membri dei BRICS+ e le loro situazioni interne, si scopre che i loro rapporti sono molto più equiparabili a rapporti tra competitor o avversari politico-economici, che non di Paesi che decidono di cooperare.

L’esempio più classico è dato dal rapporto che insiste tra India e Cina: i due colossi asiatici sono costantemente in rotta di collisione su diverse questioni, che spaziano dalla concorrenza sull’export a vere e proprie contese territoriali. Ma non solo: lo scontro è anche sull’accaparramento di risorse, soprattutto idriche. Diversi sono infatti i fiumi che dal Tibet entrano in territorio indiano, e sui quali la Cina ha costruita centinaia di dighe, scatenando la preoccupazione dell’India, che in caso di conflitto, potrebbe vedersi ridotta la capacità idrica di cui necessita nelle zone più a nord del Paese. Parlare di conflitto tra Pechino e Delhi non è un esercizio di fantapolitica: l’ultima vera guerra sino-indiana è stata combattuta nel 1961 proprio nei territori contesi, e dopo di allora le tensioni hanno seguito un andamento altalenante, per sfociare nel 2020 e 2021 in nuovi scontri di confine, seppur di non alta intensità. In prospettiva di lungo periodo, lo scontro viene mitigato dai problemi interni: se è pur vero che la Cina sia ormai una potenza economica affermata (il vero carro trainante dei BRICS+), è anche vero che deve prepararsi ad affrontare una grave crisi demografica; d’altro canto, l’India ha il problema demografico opposto, dovendo gestire una crescita di popolazione rapida e continua, che molte sfide pone al Paese soprattutto da un punto di vista socioeconomico.

Spostandoci più a Ovest rispetto alla coppia sino-indiana, troviamo un altro duo di Paesi che non si possono di certo definire amici: Iran ed Arabia Saudita. Ipotizzare che Teheran e Riad possano seppellire l’ascia di guerra per il solo motivo della collaborazione nei BRICS+ è improbabile. Le tensioni tra le due sponde del Golfo Persico non sono nuove e pertanto destinate a perdurare ancora a lungo. Riportare i motivi delle tensioni alle sole motivazioni religione è riduttivo: il fatto che siano i più grandi esponenti delle confessioni sunnita (Arabia) e sciita (Iran) è di sicuro uno dei motivi per cui lottano per l’egemonia nel Medio Oriente, ma non può essere considerato il solo od il più importante; piuttosto, sarebbe meglio considerare la religione come uno strumento. Le ragioni del conflitto sono variegate e possono risalire alla rivoluzione iraniana del 1979, che portò Teheran in una posizione di opposizione rispetto agli Stati Uniti, alleati di Riad. Dopo allora sono state diverse le guerre per procura combattute tra Arabia ed Iran, tra le quali figurano la guerra Iran-Iraq (1980-1988), la recente guerra in Siria e l’ancora in corso conflitto in Yemen. Altri motivi di tensione sono poi dati dal programma nucleare iraniano e dalla competizione (per ora sopita) sull’export di petrolio, di cui i due Paesi sono grandi produttori. La competizione per l’egemonia in Medio Oriente, insomma, non si fermerà di certo con l’ingresso nei BRICS+ dei principali contendenti di fede islamica, che si riflette proprio sul piano delle alleanze, con l’Iran vicina alla Russia e l’Arabia vicina (per quanto possibile) agli Stati Uniti. Nonostante ciò, non sono stati vani gli sforzi fatti dalla Cina nel 2023 per smorzare la tensione nel Golfo Persico, riuscendo a distendere le relazioni tra le parti; tensioni che, a causa delle recenti attività degli Houthi nel Mar Rosso, potrebbero tornare a crescere proprio in virtù delle diverse alleanze.

Rimanendo sul Mar Rosso, migliori non sono i rapporti tra altri due nuovi membri BRICS+: Egitto ed Etiopia. I due Paesi non sono confinanti o vicini, come nei casi precedenti, ma si scontrano comunque su una questione di vitale importanza per entrambi: il Nilo. Da quando l’Etiopia ha avviato la costruzione del GERD, la grande diga che sorge sul Nilo azzurro, i rapporti tra il Cairo e Addis Abeba sono precipitati, poiché il primo sostiene che l’infrastruttura etiope è un pericolo per la propria agricoltura. Il GERD è in effetti un’opera monumentale, che potrebbe anche ridurre notevolmente la portata dell’affluente. L’Egitto chiede pertanto che la gestione della diga sia quantomeno rispettosa delle proprie necessità, mentre l’Etiopia sostiene di non dover rendere conto dell’utilizzo della diga. Espandendo il discorso, vari attriti a proposito del GERD sono nati con tutti gli altri Paesi bagnati dal Nilo azzurro, mettendo l’Etiopia in una posizione complicata.

Su dieci membri, ben sei hanno pessime relazioni reciproche. A questi confronti bilaterali vanno poi accompagnate le cause di instabilità interne, che non sono da meno. Prima tra tutte, spicca la Russia, che dopo aver portato la guerra in Ucraina ed in Europa, non può di certo dormire sonni tranquilli: seppur abbia finora retto il peso delle sanzioni appoggiandosi a Paesi amici o vassalli, inizia ora ad accusare l’effetto del malcontento popolare (ancora basso, ma di certo esistente). A questa fanno seguito India e Cina, con i loro opposti problemi demografici prima menzionati.

Iran ed Etiopia affrontano invece potenti conflitti interni: nel primo caso dovuti alla repressione religiosa a cui soprattutto le nuove generazioni cercano di opporsi, sfociate nelle grandi proteste (purtroppo infruttuose) dello scorso anno e che rendono Teheran sicuramente poco affidabile, vista la necessità di sfogare queste tensioni verso l’esterno; nel secondo caso sono dovute al variegato puzzle etnico, che ha avuto massima espressione nello scontro armato tra il governo centrale ed i ribelli del Tigrai; a questo va poi aggiunta l’ultima mossa etiope in campo internazionale, che ha de facto riconosciuto il Somaliland (Stato non riconosciuto, secessionista dalla Somalia) in cambio di una garanzia si accesso al Mar Rosso. È da vedere come si evolverà la situazione: la scelta di Addis Abeba potrebbe attirare verso di sé il disappunto di altri Paesi vicini, e potrebbe persino mettere Etiopia ed Iran in rotta di collisione, visto ciò che gli Houthi (guidati da Teheran) stanno facendo per danneggiare il traffico commerciale che passa proprio dal Mar Rosso, in segno di appoggio alla causa palestinese.

Sudafrica, Egitto e Brasile affrontano invece una galoppante crisi socioeconomica, che pur avendo aspetti e cause difformi, sta portando i Paesi ad una catastrofe annunciata. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sembrano invece conoscere una certa crescita economica, dovuta principalmente agli investimenti stranieri soprattutto occidentali, ma la bassa differenziazione delle loro economie può portare i due Paesi ad importanti contraccolpi soprattutto nel campo energetico, vista la corsa al rinnovabile condotta soprattutto dall’Unione Europea che mal si sposa alle loro esportazioni di petrolio.

A tutto ciò va aggiunto il diverso punto di vista che questi Paesi hanno verso l’Occidente: se alcuni di loro, come Cina e Russia, mirano ad una competizione vera e propria, altri vedono il gruppo BRICS+ come un palcoscenico in cui mettersi in mostra per pareggiare i conti con dollaro ed euro, al fine di raggiungere uno scenario di crescita e cooperazione comune a tutto il globo; di questa visione sono portatori alcuni Stati che hanno relazioni piuttosto buone con Stati Uniti ed Unione Europea, come ad esempio Sudafrica, Brasile o l’India che, nel caso specifico, fa parte di un’alleanza militare a guida statunitense, volta al contenimento della Cina (QUAD).

L’obiettivo di creare una moneta alternativa ed unica, poi, è un dilemma più che un’idea: economie legate e stabili come quelle europee hanno faticato per riuscire a unirsi sotto l’egida dell’euro; immaginare di fare la stessa cosa con economie molto più eterogenee e guidate da interessi spesso confliggenti (come visto fino ad ora). Chi ne guadagna in termini assoluti in questo allargamento, in fin dei conti, è la Cina.

Oltre ai cinque nuovi membri, altri diciassette Paesi, quasi tutti del sud globale, hanno chiesto di diventare parte dei BRICS+ nell’ultimo vertice tenutosi in Sudafrica nel 2023, dai quali però si è sfilata l’Argentina del neoeletto Milei.

I BRICS+ non sono sicuramente da sottovalutare: da soli, per fare un esempio, controllano il 44% della produzione mondiale di petrolio e sono per gran parte produttori di materie prime di cui l’Occidente ha bisogno. Nonostante ciò, hanno molti più problemi da risolvere tra di loro che non con il resto del mondo, ragion per cui è ipotizzabile che quei sedici Paesi che hanno fatto richiesta dovranno prima aspettare un bel po’ fuori dalla porta. Viene da pensare che, l’Argentina di Milei, abbia fatto un’ottima scelta.

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